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La spunta blu

Quell'ultimo buffet

Una scena dal film "La grande bellezza"
Una scena dal film "La grande bellezza"
Una scena dal film "La grande bellezza"
Una scena dal film "La grande bellezza"

«Temo di dover confessare una debolezza fatale per la mondanità: le due ore che antecedono una festa, completamente dedicate alla cura di sé – quando le nebbie della doccia sembrano confondersi con quelle non meno dense dell’immaginazione creatrice – sono fra le cose migliori che la vita sa offrire». (Alessandro Piperno, “Con le peggiori intenzioni”)
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«Adoro i buffet, sono una meravigliosa metafora della nostra società: siamo tutti precari, non c’è più il posto fisso». L’estate stava finendo. Il tramonto ci aveva sorpresi con un bicchiere in una mano e un piatto di salvia fritta in pastella nell’altra. Quando rideva, si avvicinava oscillando e allora sentivo il suo profumo: muschio bianco, avrei giurato. Ancora non lo sapevo, ma quello sarebbe stato il mio ultimo buffet. Eravamo perfetti sconosciuti fino a pochi minuti prima. Ci avevano presentati come amici di amici, poi lo sciame che ci stava intorno si era spostato  fluttuando per spiluccare acini d’uva dal vassoio della frutta ed eravamo rimasti lì, appesi al tenue filo di una conversazione tutta da inventare. Non sapevamo che dirci, all’inizio: io sentivo pungere l’urgenza di infilarmi le mani in tasca, almeno una. Poi lei era partita a filosofeggiare sui maschi alfa. Avevo provato a dirle cose tipo: «Guarda, sono un maschio, sì, ma in classifica sto al massimo tra lambda e gamma»; lei però era andata avanti, dritta, con le sue strambe teorie oblique. Sul palco una sosia di Amelie Poulain cantava “Wonderwall” degli Oasis: «Ah, gli anni Novanta, i migliori». Già, risposi io distante, agitando quel che rimaneva del succo al pompelmo in fondo a un bicchiere che avrei detto mezzo vuoto, sentendomi subito in colpa per quel mio pessimismo innato. Quando ci ripenso, a quel buffet, vorrei tornare indietro nel tempo e riviverlo dall’inizio, senza distrarmi un attimo: ribere quel succo al pompelmo, riascoltare “Wonderwall” ricantata da Amelie Poulain. Mancavano solo cinque mesi alla fine del mondo come lo avevamo conosciuto e noi eravamo solo due ex giovani ragazzi «con un gusto pronunciato per i piccoli piaceri della vita: immergere la mano in un sacco di legumi, spaccare la crosticina di una creme brulée con la punta del cucchiaino e far rimbalzare sassi sull’acqua del Canal Saint Martin». Di quel buffet e delle teorie sul buffet mi è tornato in mente l’altra sera: giocavamo, con le mie figlie, a cercare tra le azioni messe fuorigioco dal virus quella più pop di tutte. “Gardaland, non ti manca andare a Gardaland, papi?”. Oddio, penso, sì, ma non ci si va tutte le settimane. “Discoteca”, dice l'altra. Ma non ci si va quasi mai noi in discoteca, però, certo, per molti è una perdita considerevole. Buttiamo lì un altro po' di parole, abbozziamo una classifica provvisoria, poi quasi in coro ci viene in mente una cosa per la quale andavamo su di giri e che è sparita dai radar delle nostre tribolate esistenze agli arresti domiciliari: festa, una bella festa con buffet. Ci basta pronunciarla per illuminarci di ricordi: vacanze, soprattutto, ma anche matrimoni, inaugurazioni, ore liete e spensierate. “Non possiamo sbagliare il buffet”, ci aveva detto la wedding planner mentre picchiettava i polpastrelli sui tasti del computer elaborando un preventivo che mi stava dando le vertigini, con il respiro strozzato e grosse gocce di sudore lungo la schiena. E proprio per non sbagliare, di buffet se ne fecero due, uno di benvenuto quando eravamo ancora tutti profumati e pettinati, il secondo per i dolci, quando le cravatte ormai erano allentate e i trucchi sfatti. Buffet è una parola grassa e grossa, che il virus ha colpito e affondato al primo colpo: da trascrivere nel dizionario delle parole smarrite, quelle che non pronunciamo più perché non ci capita più di fare le cose che descrivono. I buffet, in effetti, sono svaniti subito, evaporati nei decreti, non sono più tornati, nemmeno nelle pause della pandemia, e torneranno solo quando la ceralacca sarà asciugata sugli accordi di pace di questa guerra che è la pandemia. Ci si assembrava senza farci caso intorno ai tavoli, si toccavano piatti, bicchieri, forchette e cucchiai, si stava vicini, ci si parlava all’orecchio, spalla a spalla, ci si abbracciava quando ci si vedeva, appoggiando piatti e bicchieri su trespoli e sedie, e ci si baciava, persino: che orrore, a ripensarci oggi, con le unità di misura dell’era covidica. Eravamo potenziali serial killer, folli menti luciferine in grado di scatenare epidemie con la semplice imposizione dei polpastrelli in una stretta di mano. Un buffet oggi è catalogato dal comitato tecnico-scientifico alla voce “bomba atomica pronta a essere sganciata sull’umanità”. Un buffet ieri, invece, con la sua leggera flessibilità, diremmo persino liquidità, era una discreta metafora della società in cui vivevamo, aveva ragione quella mia amica precaria per un'ora, forse due, che detestava i maschi alfa e profumava di muschio bianco. Non lo sapevamo, ma vivevamo nella società-buffet. Quando sfoglio l’album di nozze dei miei genitori, ci ritrovo la spina dorsale di quel mondo solido, strutturato, disegnato con linee perpendicolari e angoli retti. Al ristorante sono tutti seduti, i parenti della sposa a sinistra, quelli dello sposo a destra. I tavoli sono allineati a ferro di cavallo, di là si mangia, di qua si balla, i posti sono assegnati, non c’è competizione, non c’è gara, non ci sono sorprese, né vie di fuga: gli attori non devono fare altro che recitare il copione. Il buffet è tutt'altra storia: è un quadro impressionista, dipinge il movimento, l’arte di esserci e sparire, di spostarsi, di seguire l’onda o di remare contro vento, è la fiera delle vanità in cui esibirsi, ma è anche un nascondiglio perfetto, per esserci senza farsi vedere. Era un abito su misura per il mondo che stavamo vivendo prima che ci infilassimo in questo tunnel. Perché era competitivo: non c’erano posti assegnati, ogni spazio doveva essere conquistato e difeso; le pietanze più prelibate e ricercate dovevano essere accaparrate come munizioni in una guerra. Era precario, pure: poteva accadere ogni cosa, non c’erano certezze, nessuno aveva garantito nulla, nemmeno la sedia (quella non la garantiscono proprio più). La tavolata è il welfare di una volta, comodo come leggere un libro o un giornale di carta, il menù è uguale per tutti, perché tutti avranno la loro porzione. Con il buffet è tutto instabile, l’equilibrio si monta e si smonta di continuo, siamo sempre all’erta, come pattinatori sul ghiaccio: in piedi, con le mani occupate, la bocca piena, impegnati a parlare dietro occhiali da sole scuri, tra le borsette e i foulard. Stavo fissando l’erba, rasata meglio della mia barba, disposto a spendere una certa somma pur di calciare un pallone, dargli un effetto a rientrare, quando lei mi sfiorò il gomito, indicando con il mento e un terzo di sorriso: «Lo vedi quel tizio nervoso con i fianchi larghi?». «Quello con il corpo a pera?». «Proprio lui. Quello è un accumulatore: ha paura del futuro e nostalgia del passato, non sa cosa possa accadergli, nemmeno tra dieci minuti, così riempie il piatto, che non si sa mai, accosta pesce e carne, ci mette anche una fetta di torta. Fa le scorte, come uno scoiattolo». Cercai di spremere qualcosa di arguto, anche una citazione qualsiasi, magari di Jep Gambardella, sarebbe stato perfetto: ad esempio quando su un prato come questo, sullo sfondo di un buffet come questo, balla un lento con Stefania e le chiede felpato se siano mai andati a letto insieme. «Certo che no», risponde lei fingendo scandalo. E lui, sublime: «Meno male. Ci rimane ancora qualcosa di bello da fare. È meraviglioso il futuro, Stefa’». Invece quella mia amica a tempo determinato mi portò subito a catalogare un altro tipo umano da buffet: «Quello con la giacca canna di fucile è invece un attendista». Perché attendista?. «Guardalo, non ha ancora mangiato, non si è lanciato sui tavoli quando è arrivato, perché è intimamente convinto che il meglio debba ancora venire. E infatti là in fondo è spuntato lo chef e si è messo a sbollentare gli astici. Per lui il passato è una terra straniera, il futuro è la sua comfort zone: vive per quello che verrà. Gli altri sono sazi, è il momento dell’attendista, che planerà sugli astici come un falco». Mi stava fissando da sotto, inclinandosi di lato, indovinando i miei dubbi: io cosa sono, un accumulatore o un attendista, uno scoiattolo o un falco? Poi però il tizio con la giacca canna di fucile si voltò e iniziò a chiamarla gesticolando. «Devo andare, ci sono gli astici». Quello però è un maschio alfa. «Un po’», ammise lei e sinuosa attraversò il prato, oscillando sui tacchi, inghiottita dal tramonto, convinta che il passato fosse una terra straniera e che il meglio dovesse ancora venire, mentre una sosia di Amelie Poulain cantava vecchi pezzi anni Novanta e un profumo di muschio bianco si spandeva nell’aria umida di fine estate: ancora non lo sapevamo, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo buffet.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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