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La spunta blu

Quell'insostenibile nostalgia per le code all'ora di punta

Salvador Dalì, "La persistenza della memoria"
Salvador Dalì, "La persistenza della memoria"
Salvador Dalì, "La persistenza della memoria"
Salvador Dalì, "La persistenza della memoria"

“Scusa l’anticipo, ma ho trovato tutti verdi” (Alfredo Bucciante)
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A qualcuno piacciono le code all'ora di punta? A me no. Non dico che darei il mio voto, ma di certo alzerei la mia tazza fumante di Earl Grey alla salute del primo politico che si presentasse con un progetto per diluire gli orari delle nostre caotiche esistenze. Tra le tante occasioni che stiamo perdendo mentre dondoliamo paurosamente sull'altalena della pandemia, c'è una riscrittura dei tempi delle città una revisione degli orari delle nostre esistenze. Il virus ha sciolto il tempo, come gli orologi di Salvador Dalì: la percezione delle ore che scorrono si è fatta molle, gommosa, si estende e si comprime seguendo l’onda dei divieti e dei lockdown, che ci danno l’illusione di aggiungere tempo libero, salvo poi svuotarlo di senso impedendoci di fare quasi tutto quello che facevamo. Tempo libero senza libertà. Ma non è una forma di prigionia anche lasciarsi ottusamente imbottigliare nel traffico ripetendo gli stessi riti e schemi di sempre non appena si scivola dalle zone rosse alle zone gialle? Per convivere con il virus ci è stato detto che dobbiamo mantenere le distanze: quasi sempre questo comandamento è stato eseguito nello spazio, quasi mai nel tempo. Eppure si può essere distanti anche nel tempo, non solo nello spazio: basta fare le stesse cose nello stesso spazio ma in tempi diversi. Se tutti iniziamo a lavorare alle 8 del mattino e finiamo alle 18, ci imbatteremo in due giganteschi ingorghi, mentre le strade saranno sgombre prima e dopo; se tutti andiamo al mare di domenica, impiegheremo molte ore per percorrere pochi chilometri. Ci piace? In un impeto di masochismo forse sì. Ma non è indispensabile. Tutt'altro. Chissà perché, allora, abbiamo accettato di cambiare molto delle nostre esistenze, ma non accettiamo l'idea di cambiare orari, di modificare i tempi delle nostre città. Basterebbe citare il drammatico caso della scuola, finita nuovamente nel vortice della didattica a distanza: tra le molte cause, c'è anche il rifiuto senza se e senza ma di almeno tentare la via degli ingressi scaglionati. Abbiamo sette giorni, ma ne usiamo cinque; abbiamo 24 ore, ma ne usiamo 16. Toglietemi tutto, ma non l'ingorgo del mattino e della sera, salvo poi tempestare con emoji di sorpresa le notizie che riportano le periodiche statistiche sul tempo perso incolonnati: ore ogni giorno, che sommate fanno molti giorni all'anno, settimane in una vita. Grattando sotto la pellicola di questa resistenza a cambiare per stare ragionevolmente meglio, riposa l'istinto di conservare le abitudini: e non c'è nulla come il ritmo a cui finiamo per affezionarci e ad attaccarci come cozze a uno scoglio, nonostante l'irrazionalità di quei grumi di esseri mani in fila dentro le loro auto, tutti contemporaneamente in strada all'ora di punta, tutti a smanettare sul telefono con una mano e a spiluccarsi le caccole dal naso con l'altra. "Il traffico - scrisse Ennio Flaiano - ha reso impossibile l'adulterio all'ora di punta". In un mondo che si è liquefatto, sembra che l'ora di punta resti solida come una colonna di marmo a cui aggrapparci quando tutto sembra sfuggirci di mano. Qualcosa del tipo: non ci sono più le mezze stagioni, ma almeno ci è rimasto il traffico, come avrebbe detto Johnny Stecchino.
 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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