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La spunta blu

Quando fare sport era proibito

Corsa sull'argine, 20 marzo 2020
Corsa sull'argine, 20 marzo 2020
Corsa sull'argine, 20 marzo 2020
Corsa sull'argine, 20 marzo 2020

«Nel caso in cui la motivazione degli spostamenti sia l’attività motoria, la persona è obbligata a rimanere nelle immediate vicinanze della residenza o dimora e comunque a distanza non superiore a 200 metri, con obbligo di documentazione agli organi di controllo» (Decreto del 20 marzo 2020)
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Ho scattato questa foto il 20 marzo 2020. Quella lì è la mia ombra. Stavo correndo sull’argine del Bacchiglione, verso le risorgive. Ero uscito presto quella mattina. Sapevo che sarebbe stata l’ultima corsa per un po’ di tempo. Me lo sentivo, troppi i segnali. Dopo poche ore sarebbe arrivato l’annuncio: vietato correre, pedalare, passeggiare, calciare, nuotare, combattere, giocare. Fermi tutti. Il giorno prima ero stato insultato da una tizia affacciata al balcone dove aveva appeso un tricolore e un disegno con l’arcobaleno e la scritta “andrà tutto bene”: mi aveva urlato perché stavo correndo da solo, lontano da tutti, su una pista ciclabile. Poco dopo un uomo della mia età aveva clacsonato dal suo furgone con gli occhi iniettati di sangue mostrandomi il pugno. Ero stato trattato da fuorilegge prima ancora che la corsa venisse messa fuori legge. Il clima era quello: in lockdown da una dozzina di giorni, era partita la caccia al runner o al ciclista. “Dagli all’untore”. Per un mese mal contato non sarebbe stata ammessa attività sportiva a più di duecento metri da casa. Era possibile violare quel limite invalicabile per andare ad acquistare tabacco e farsi del male, ma non per correre e farsi del bene. Una corsa al guinzaglio, con il goniometro e il compasso. La corsa dei criceti. Sembra che ce ne siamo dimenticati tutti. E forse va bene così. Però c’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui in Italia lo sport non solo era vietato, ma chi provava a praticarlo veniva osservato con sospetto e disprezzo. Ora che i riflettori di Tokyo si sono spenti sul forziere delle olimpiadi più azzurre di sempre, non sarebbe un esercizio inutile ricordare da dove siamo venuti tutti, gli atleti italiani che hanno fatto risuonare l’inno di Mameli sotto i cinque cerchi, ovvio, ma anche tutti noi. Perché dietro una medaglia d’oro, ci sono migliaia di podisti, saltatori, nuotatori, lottatori, schermidori, arrampicatori che fanno sport nei ritagli di tempo, pagando, tra sacrifici, infortuni, dolore e sudore, lontano dalle luci della ribalta, per pura passione e per amore. E allora, quando sfileranno al Quirinale, non sarebbe male ricordare che in questo paese, quando non si sa che pesci pigliare, si chiudono la scuola e lo sport, come è accaduto in questo incredibile anno e mezzo. Quando esplode un’epidemia, si pensa di curarla predicando la terapia della solitudine e della sedentarietà, rovesciando la piramide dei valori, dei vizi e delle virtù. Dietro la spedizione azzurra che ha regalato emozioni e gloria c’è un paese che ha prosciugato e svuotato l’ora di educazione fisica nelle scuole, che ha chiuso piscine e palestre, che ha impedito di gareggiare persino agli agonisti, che ha incenerito la rete di associazioni e gruppi che alimentavano lo sport di base, che ha elevato il divano a scialuppa di salvataggio nella tempesta perfetta del virus, un paese che preferisce fare a meno di un ministro dello sport, perché lo sport è arrivato a nuocere gravemente alla salute al punto da essere vietato, perché qui preferiamo curare piuttosto che prevenire. Gongolarsi nella retorica dell’arte di arrangiarsi e di improvvisare, di dare il meglio quando tutto va per il peggio, come accaduto nel cuore di questa estate italiana, rischia solo di farci ripetere l’errore di cui siamo maestri: gettare la polvere sotto il tappeto senza investire, programmare, guarire. Quelle quaranta medaglie sono le vittorie di atleti che ce l’hanno fatta contro tutto e tutti, partendo spesso dalla provincia profonda, dove spesso non ci sono nemmeno piscine e palestre da chiudere. Ma sono anche il riscatto di chi non si è mai arreso, chi di chi ha sollevato pesi in un parcheggio con la neve, di chi ha pedalato per chilometri in garage, di chi la domenica mattina ha boxato nella nebbia di un parco, di chi non ha mai smesso di credere che ci sia più libertà in una corsa su un argine al mattino che in cento ore passate sul divano.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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