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La spunta blu

Paesaggio dopo la battaglia

Jack Vettriano, "The singing butler"
Jack Vettriano, "The singing butler"
Jack Vettriano, "The singing butler"
Jack Vettriano, "The singing butler"

“Dove eravamo rimasti?” (Enzo Tortora)

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Anche ora che il peggio sembra essere passato, fatichiamo a rinunciare a parlare della pandemia come di una guerra. Mentre le notizie del virus perdono peso specifico nei titoli dei giornali e nelle scalette dei talk show, mentre proviamo a riprendere il filo della vita di prima attraversando piazze animate da mercati e tavoli all'aperto di bar e ristoranti, in realtà siamo ancora sulla soglia tra dentro e fuori, appesi a quel che resta di divieti e di prudenze imposti o suggerite in questi quindici mesi. Non è ancora tutto finito e non è ancora tutto ricominciato. Da quanto tempo non ballavamo con questa leggerezza sulle note di una fisarmonica sul bordo di un tramonto senza l'ansia del coprifuoco? Con le dovute proporzioni, questo maggio ricorda “La tregua”, il romanzo-testimonianza di Primo Levi che descrive la fine della seconda guerra mondiale, la liberazione dei prigionieri e la lunga traversata dell'Europa devastata nel corpo e nell'anima per tornare a casa. “Quando c'è la guerra - scrive Levi - a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso. – Ma la guerra è finita – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi”. Questo è il punto: ci servono le scarpe per tornare a camminare, per tornare a vivere senza dover camminare a piedi nudi sui pezzi di vetro come il virus ci ha costretto a fare. Non sono solo scarpe per lavorare, ma anche per amare, per viaggiare, per studiare, per stare dove ci è stato vietato di stare, in mezzo alla gente. “Paesaggio dopo la battaglia” è il riuscito titolo dell'ultimo album di Vasco Brondi fresco di pubblicazione. Cosa rimane allora sul nostro campo dopo la battaglia contro il covid? Restano dei vuoti, molti e profondi. I vuoti di chi non c'è più. I vuoti lasciati dal distanziamento sociale: da quanto non stringiamo una mano, non abbracciamo un corpo, non baciamo un viso? I vuoti della scuola che non c'è, trasmessa da lontano, spesso troppo lontano. I vuoti dei giorni senza notti, di un tempo schiacciato sul qui e ora, totale presente senza poter programmare il futuro. Il vuoto della diffidenza, del dubbio, del sospetto, del disorientamento, dell'incertezza. Sul campo di battaglia da cui stiamo uscendo resistono ancora posture, abiti, armi divenuti normalità, ma che normali non sono. La mascherina, per dire: continuiamo a indossarla, indispensabile come le maschere antigas nelle trincee della prima guerra mondiale, come si portano giubbetti antiproiettile e pistole alla cintola nelle zone di guerriglia. Ci accompagneranno ancora per un po', per almeno altri due mesi, come ha detto un po' scherzando e un po' no il premier Mario Draghi. Nel nostro paesaggio dopo la battaglia ci sono pareti di plexiglass issate ovunque, come cavalli di Frisia e filo spinato davanti alle fortificazioni: sono barriere fisiche, frontiere tra esseri umani, confini artificiali tra persone che si temono perché temono il contagio. Agli ingressi dei negozi termoscanner e dispenser per il gel disinfettante sono i nostri mille checkpoint Charlie per attraversare il Muro del covid. E ancora: i percorsi obbligati segnalati con nastri da cantiere nei supermercati, i cartelli che vietano di sedersi su una poltrona ogni due per mantenere le distanze nelle sale d'attesa. Certificati, documenti, green pass da esibire come il visto nei film di spionaggio. E le file sui marciapiedi davanti agli uffici postali o ai fornai: non sono anche quelle file una spia di un tempo sospeso, macchiato dalle leggi marziali della guerra? La battaglia ha imbruttito il paesaggio, lo ha incattivito, indurito, inaridito. “Torneranno i prati” è il perfetto titolo scelto da Ermanno Olmi per il suo ultimo film dedicato al brutale passaggio della Grande guerra sull'Altopiano. Il mondo ci appariva pazzo prima: e oggi? Mentre torniamo a dividerci sulle tasse e sui migranti, non abbiamo ancora superato le divisioni tra aperturisti e salutisti, tra responsabili e negazionisti, tra Sivax e Novax, stratificando posizioni e pensieri come bandiere e fedi calcistiche. Le scorie della pandemia, quando la nuttata sarà davvero passata, chiederanno tempo per lasciarsi smaltire. Dovremo essere bravi a riallenare i muscoli per lasciarci alle spalle il trauma della caduta ed evitare che sulla pelle delle nostre esistenze restino i segni della battaglia, come certi bunker di cemento armato resistono ai bordi di spiagge di sabbia bianca orlata dalla spuma di mare e da un cielo indaco, tra il mirto e le ginestre in fiore, resistono anche se nessuno ricorda più perché stanno ancora lì, a cosa servissero, se a difendersi o ad attaccare, ma loro resistono nel paesaggio dopo la battaglia.

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Incollo qui un commento scritto da una lettrice:

"Bellissima la riflessione sulla fine della “guerra”, ma purtroppo questa non è stata una guerra, almeno come la si considera convenzionalmente, nessuno ha lottato per la libertà o perlomeno, a differenza delle scorse guerre, chi lo ha fatto è stato tacciato dalla massa. Guerra, battaglia sono parole grosse, io le definirei un orrido Carnevale dove si girava mascherati senza voglia di scherzare, il Carnevale vero ci è stato rubato, confiscato, troppo pericoloso per la salute. Lei ha ragione non torneremo più come prima, questa guerra ha portato alla luce le differenze, non sociali , bensì intellettuali.  Alla fine di ogni conflitto si ha tanta povertà ma anche molta speranza, voglia di ricominciare, di ricostruire in meglio,  ora si ha solo la povertà, l’unica speranza che è rimasta è quella di andare in ferie marchiati come le pecore della Nuova Zelanda e non finirò mai di dirlo che questa “guerra” ci ha rubato il futuro e cancellato il passato, ci hanno trasformati nelle greggi dell’era 4.0 e la libertà consiste nel conseguire la marchiatura per un po’ di sole.
Questa “guerra” è stata solo la ballata dei narcisisti".

Michela Paganin

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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