<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La spunta blu

Non è stato un raptus

Edward Hopper, "Cape Cod morning"
Edward Hopper, "Cape Cod morning"
Edward Hopper, "Cape Cod morning"
Edward Hopper, "Cape Cod morning"

Ancora sulla violenza, ancora sui femminicidi: parliamone, parliamone, parliamone. Non smettiamo di farlo. Questa è una battaglia per la libertà: la libertà delle donne. E le battaglie giuste vanno combattute e vinte. Oggi ospito in questo spazio alcune riflessioni di colleghe e colleghi con cui ho la fortuna di lavorare al Giornale di Vicenza. Vale la pena di leggerle e di alzare il volume, per non lasciar calare il silenzio.

.

“Quando  in anticipo sul tuo stupore
Verranno a chiederti del nostro amore
A quella gente consumata nel farsi dal retta
Un amore così lungo tu non darglielo in fretta...”

Fabrizio de Andrè non era solo un cantautore per Lisa, 40 anni, era un accompagnatore schivo. Un amore parallelo che le stava a fianco. Parole e sogni, note e mondi da costruire. “Se dentro di me c’erano solo pensieri, lui riusciva a darmi la forza per guardare oltre. Anche se gli occhi non avevano più una traiettoria. Mi sposai a venticinque anni, convinta di avere trovato l’amore della mia vita. Chi non lo è a quell’età? Tutto funzionava, lavoravamo entrambi. Certo, niente di che, riuscivamo a mettere assieme quanto bastava per pagare l’affitto, il mutuo per l’auto usata e per mangiare. Però andava bene, non avevamo grandi sogni. Non so, se la mia vita poteva andare così, non avevo tempo per chiedermelo. C’era una sorta di cerimoniale religioso tra di noi, con i pensieri che andavano indietro a pescare nel deposito dei ricordi. E lì trovavamo la forza. Andammo avanti per circa dieci anni, attorno a noi gente distratta, incapace di offrirsi per qualcosa che fosse di più di un saluto. Poi arrivò il terremoto, sul lavoro lo accusarono di qualunque schifezza, di aver rubato. Insomma, di essere un poveraccio. Ne abbiamo parlato poche volte. Io volevo sapere, ma lui non voleva dire. Ho sbagliato, quando le parole sono diventate spintoni, quando i racconti diventavano schiaffi che restavano stampati sulla mia faccia per ore e ore. Ho sbagliato quanto ho pensato che non era colpa sua. Ho sbagliato quando mi sono detta che potevo accettare, che le cose sarebbero andate meglio, che era solo questione di tempo. Dio, quanto mi son sbagliata. Stavo diventando carne per il suo tritacarne interiore, per le sue ombre, i suoi dubbi, per le maldicenze”.
Lisa finisce al pronto soccorso tre, quattro volte, le scuse sono quelle di sempre: cadute accidentali, sportelli aperti, inciampi lungo strade dove non c’erano ostacoli. In comune cominciano ad avere solo i calci. Lei capisce di essere fuori dal paradiso, sul fondo. Si mette le mani davanti agli occhi per non vedere, vuole solo sentire perché nella mente quel dolore viene mitigato dai ricordi. Però non riesce ad andare avanti a lungo. 
“Chiesi aiuto ad un centro, ma non era semplice parlare, le frasi erano incatenate come i pensieri, nulla scorreva. Ero impietrita dal dolore, dall’abbandono, dalla pochezza che vedevo attorno a me. Ero spaventata, sola, incapace di ammettere che quelle botte erano le mie botte, che quegli insulti uscivano dalla bocca di una persona alla quale avevo voluto bene. Ma quel verbo declinato al passato era difficile da pronunciare. Ero inadeguata, il mio corpo martoriato era perfetto solo per inchiodare il presente mortifero che mi circondava. Gli adulti fanno domande imbarazzanti in queste situazioni. Vogliono sapere quando inizia il dolore, e io mi sentivo costretta a trovare risposte. Un esercizio difficile anche solo per rimettere in sesto le suppellettili che reggono quello che dovrebbe essere il nostro sistema di valori, di rispetto. Quello non scritto. Non come le canzoni che ti restano in mente. Qui di scritto non c’era nulla. Solo la differenza tra un uomo e un animale. E come la spieghi? Come fai a sfuggire agli inganni?”.
Lisa pensa, riflette e si perde nel riepilogo dei suoi anni. Rivive tutto quello che le è passato davanti , tutto quello che ha dato e, quello, che non ha raccolto e tutto quello che ha perduto. Abbandona la casa, vive in una comunità protetta per alcuni mesi, ma lui la trova e la tormenta. Si aprono fascicoli, la giustizia cerca di mettere mano a questa storia sbagliata. Ma i tempi non coincidono . La follia è repentina, la rabbia non ha momenti morti, il rancore si presenta all’improvviso.
“Non capivo più nulla , ero frastornata, una sera mi rincorse mi disse che voleva cambiare, che aveva ripreso a lavorare, che potevamo riprendere la nostra vita. Me lo disse guardandomi negli occhi, ma non gli credevo più, volevo solo restare da sola, abbassare lo guardo e andarmene lontano. Lui mi obbligò a fare all’amore, mi accusò che non avevamo avuto figli. Ricordo che rientrai nella casa famiglia sporca, sanguinante. Nulla che si potesse vedere, non ne parlai con nessuno. Mi vergognavo non avevo mantenuto le promesse, avevo avuto paura. Questo è stato il mio problema. Non volevo morire. Ma chi lo capisce, come fai a spiegarlo? Mi sentivo tra due porte arrugginite e nel mezzo c’era il destino . Forse”. Lisa non mollò, continuò a vivere nella casa protetta, con i suoi occhi grandi, tristi e spaesati . Con il suo disarmante sorriso, una smorfia piena di timidezza. Con il suo corpo degradato, sporcato , denudato, offeso, colpito, infangato. Ecco la sua interpretazione del mondo. Non si ricordava neppure quando era nata. Ma quella della morte la ricordarono altri. Non salì in macchina con il suo ex, non tornò a vivere con lui, lasciò che le ferite si rimarginassero, sudò, sperò fino a quando una mattina se lo trovò davanti ubriaco, con gli occhi spenti e capì che quello era il suo giorno, la sua data. In ospedale le dissero che era incinta. “Se avessi avuto un figlio, avrei voluto un maschio, avrei potuto allevarlo con dignità e rispetto, e l’avrei chiamato Rodolfo...”. Ma Rodolfo non vide mai la luce, sua madre, invece, si riprese. Però, la vita non transitò più dalle sue parti.
Nel 2021 c’è stato un femminicidio ogni quattro giorni . Sono 83 le donne uccise da uomini, mariti, compagni oppure ex mariti. Sette solo negli ultimi giorni e tra queste ci sono Rita ed Alessandra. Poi ci sono le altre. Come Lisa. Che tentano di andare avanti, di sopravvivere, ma nelle classifiche non rientrano. Restano volti infilati tra un foglio di una denuncia e una promessa che nessuno riesce a mantenere. Di loro si parla poco, non si scrive nulla. Perché il dolore diventa un guscio nel quale proteggersi. Sono guerriere solitarie e le loro armi sono le parole, i racconti. Se qualcuno avesse la pazienza di ascoltarli.
“Non sono riuscito a cambiarti
Non mi hai cambiata lo sai ...”
Le note, ora, sono diverse, sono una gara per il futuro. Non si lascia più il campo nelle mani dei nemici. Lo si difende a denti stretti . “Non so quali siano stati i miei peccati, però ho esaurito le colpe. Ed è stata una conquista . A volte esco, mi metto un paio di scarpe rosse, ma poi me le tolgo. Le storie non sono pagine da copiare. Ognuna ha un colore diverso una tonalità che cambia. Non ho avuto rivincite”.

Chiara Roverotto
.

“Sono molto, molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d' una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso”. (Oriana Fallaci, “La rabbia e l'orgoglio”).

Cos'è questo sentimento che cresce, prende forma, divampa dentro di noi? È dolore, certo. È tristezza, anche. Ma è, soprattutto, rabbia. Rabbia e orgoglio. Alessandra è morta da poche ore. Non si sa ancora con esattezza quale sia la dinamica, quale il movente. Una cosa però, appare subito chiara: è stato un uomo. È sempre un uomo. «Noi donne non lo faremmo mai, perché loro sì?» sussurra una collega della giovanissima parrucchiera uccisa mercoledì, mentre le rivolgo qualche domanda all'interno del salone di viale Verona dove lavoravano assieme. Sono una giornalista. Sono abituata all'imparzialità, all'obbiettività, alla freddezza della cronaca. Non dare opinioni, non prendere posizioni, è una delle regole auree del mestiere di cronista. I fatti, nudi e crudi. Ma non posso più tacere. Non possiamo più tacere. Ci guardiamo, io e la collega di Alessandra e al di sopra delle mascherine, ci riconosciamo. Siamo sorelle. E da sorelle, tutte noi, dobbiamo agire. Perché non di soli spari in faccia e coltellate al petto muore una donna. «Fai finta di niente, dai». «Lascia stare, non ti voltare». «Non rispondergli, o sarà peggio». «Fallo sfogare, che poi gli passa». Sono tutti i modi in cui, per causa vostra – vostra, uomini – noi moriamo ogni giorno. Perché prima del sangue, c'è la cultura. C'è il costume, la tradizione, la consuetudine. La mentalità. Quella che non si vince a suon di slogan zuccherosi e panchine rosse, ma con le politiche attive, le misure sociali e sì, anche le quote rosa. Che non sono una bestemmia ma un modo per costruire un'equità di genere che non c'è mai stata. «Eh ma dovete meritarvele le cose, non è giusto che siate assunte/nominate/elette solo perché donne», dite voi. Ma se in una gara di corsa tu parti 300 metri davanti a me, quello che bara sei tu. Se tu hai scarpe da running e io devo correre in infradito, se tu ti sei potuto allenare per un anno e io nemmeno per un'ora (è tutta una metafora, ma è meglio precisarlo), quello che bara sei tu. Non io che faccio in modo di poter cominciare dalla stessa linea. Peccato che questo l'altra metà del cielo nata sotto una stella più fortunata della nostra non lo capisca. Anzi, spesso lo ostacoli, lo condanni, quantomeno lo derida. E allora dobbiamo pensarci noi, ragazze, amiche, sorelle. Che nel maschilismo subdolo o sdoganato veniamo intinte fin dalla nascita. «Ma dai, non esagerare, non fare la femminista», mi sento ripetere continuamente. Quasi come se “femminista” fosse un'offesa, un'oscenità e non la parola portatrice di futuro e speranza che invece è. “Non esagerare” nel pretendere che i tuoi figli abbiano – anche – il tuo cognome. “Non esagerare” nel voler pari trattamento professionale. “Non esagerare” nello scegliere vestiti troppo (o troppo poco) audaci. “Non esagerare” nell'esigere rispetto mandando a quel paese chi ti fischia da un'auto in corsa (catcalling, they say). “Non esagerare” nell'essere diretta, nel ridere di gusto, nel bere quel bicchiere in più, nel tornare a casa tardi, nel viaggiare da sola. “Non esagerare” nell'essere te stessa. “Non esagerare Alessandra”, le avrà detto il suo assassino, poco prima di colpirla a morte. E allora noi, tutte, esageriamo. Urliamo. Rivendichiamo. E arrabbiamoci. “Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito”. (Oriana Fallaci, “La rabbia e l'orgoglio”).

Giulia Armeni

.

Marce, fiaccolate, incontri e dibattiti sul tema della violenza contro le donne. Non si può dire manchino le occasioni di sensibilizzazione, specialmente sull’onda emotiva di tragedie come quelle cui abbiamo assistito negli ultimi giorni. Peccato, però, che a occupare le sedie delle conferenze, a sfilare nei cortei e a indossare il nastro rosso spesso siano quasi soltanto le donne. È certamente importante costruire una coscienza comune, dirci che non siamo sole e imparare a riconoscere i segnali di allarme di una relazione violenta, ma difficilmente le statistiche - quasi quotidianamente aggiornate dopo ogni fatto di cronaca che dà conto di femminicidi e maltrattamenti - subiranno un’inversione di tendenza se non parliamo anche agli uomini, se non usciamo da una certa autoreferenzialità, se gli uomini stessi non prendono posizione. Si tratta di un processo culturale lento, di cui devono essere poste le basi in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro. La cultura del rispetto va curata e fatta germogliare come un seme in un giardino. Per questo, la prevenzione, intesa anche come educazione alle pari opportunità, ha un ruolo importante tanto quanto l’ascolto e la presa in carico delle vittime nei centri antiviolenza. Occorre agire sugli uomini e le donne di domani. Ma anche sugli uomini e le donne di oggi. Sensibilizzazione, educazione e pure formazione. Perché chi nelle forze dell’ordine ha l’incarico di raccogliere le denunce, deve essere preparato a riconoscere i fattori di rischio. Chi, tra magistrati e avvocati, lavora nelle aule di giustizia deve possedere gli strumenti per identificare i comportamenti violenti, perché non siano declassati a conflitti familiari. Attenzioni come queste a volte possono fare la differenza tra la vita e la morte.

Laura Pilastro

.


Sono partiti da casa, pistola in tasca. L'hanno caricata, l'hanno puntata, hanno premuto il grilletto. E poi sono fuggiti. Chissà convinti di cosa, poi. Di avere una speranza? Di non avere una coscienza?
Chissà se se l'erano immaginata quella scena. Se se l'erano studiata. Chissà se si sono sentiti finalmente ripagati. Chissà se vedere il corpo a terra di quella giovane donna che non stava alle loro regole li ha fatti sentire “uomini”, proprio quando hanno smesso di esserlo. Chissà se si sono sentiti riconosciuti e vendicati.
Chissà quando hanno smesso di essere capaci di rispettare, accettare, capire, o semplicemente di fare i conti con la propria rabbia, la propria delusione. Chissà quando hanno iniziato a sentirsi onnipotenti, padri, padroni. Chissà se per loro la gelosia era da sempre “una dimostrazione d'affetto”, se la violenza sinonimo di passione; se il controllo una forma di attenzione. Chissà cosa vedevano con quegli occhi senza amore.
Non mi vuoi? Ti ammazzo. A bruciapelo.
Pavidi e arroganti. Miseri.
Come si può sentire una donna, qualsiasi donna, davanti alle storie di Rita e Alessandra e di tutte le altre? E un uomo, come dovrebbe sentirsi?
Ragazze, donne, uccise perché decise a vivere. Che è diritto di scegliere, di decidere, di cambiare strada, di cambiare idea, di dire sì, no, basta; di fidarsi, di sognare, anche di sbagliare, di osare, di ricominciare, di perdersi e trovarsi, uguali o diverse. Di tentare. Di ferire a volte, anche quando non si vuole.
Non è un esercizio di stile questo. Non cerchiamo frasi ad effetto, non vogliamo sdegno urlato e poi archiviato. Non servono proclami. Che alla fine, sempre uguali a loro stessi e mai efficaci, si sfiancano e ci sfiancano. Serve una presa di coscienza reale, vera, profonda.
Serve ammettere il problema. Serve smettere di sminuire, di circoscrivere, di cercare alibi.
Serve azione.
Si parte dalle case, si passa per le scuole, per le piazze, per gli uffici, per la tv, per i giornali, per la politica, per i social. E' questione di gesti, linguaggio, scelte, foto, battute che non sono battute, silenzi che sono complici.
Serve parlarne, ascoltare, capire, credere, proteggere. Mettersi nei panni. Smettere di giustificare. Serve educare i ragazzi e le ragazze all'autonomia, ai sentimenti, all'accettazione, alla responsabilità, al rispetto, al cambiamento, anche al “fallimento”. Serve raccontare, denunciare. Ogni giorno. Fino allo sfinimento. Perché non siamo esagerate, non siamo fissate. Siamo arrabbiate, ma anche stanche, spaventate, incredule. Siamo realiste. E chiediamo che ciascuno faccia la propria parte. Con i fatti.

Alessia Zorzan

 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

Suggerimenti