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La spunta blu

Liberi di sconnettersi

Una scena del film "L'eclisse" di Michelangelo Antonioni
Una scena del film "L'eclisse" di Michelangelo Antonioni
Una scena del film "L'eclisse" di Michelangelo Antonioni
Una scena del film "L'eclisse" di Michelangelo Antonioni

«Le mangrovie crescono in un clima meraviglioso dove il fiume (di acqua dolce) incontra il mare (di acqua salata). Ora immaginate di essere in immersione e qualcuno vi chiede: “L'acqua è salata o dolce?”. La risposta è che: “Mio caro, non sai dove siamo. Questa è la Società delle Mangrovie. È sia dolce che salata. È acqua salmastra”. Quindi immagina che qualcuno ti chieda oggi: “Sei online o offline?”. La risposta è: “Mio caro, non hai idea di dove ti trovi. Siamo in entrambi”» (Luciano Floridi, The web conference 2018, Lione, Francia)

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Oggi andiamo lunghi, mettetevi comodi. Il post di ieri, “L'ultima ruota del carro” (che per comodità trovate a questo link: https://www.ilgiornaledivicenza.it/spazio-lettori/blog/la-spunta-blu/l-ultima-ruota-del-carro-1.8419016), ha innescato molte reazioni. Vorrei partire da questo commento che mi ha inviato Cesare Galla, già vicecaporedattore al Giornale di Vicenza, curatore del sito di informazione, musicale e non solo, cesaregalla.it

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Caro Gian Marco, "Taci tu, che sei l’ultima ruota del carro”. Prima che il mio fratello minore fosse in grado di interloquire, e lo scomodo ruolo passasse a lui per inevitabilità anagrafica, la frase che mi piombava sulla testa quando in famiglia volevo dirne una di troppo aveva il suono definitivo delle sentenze passate in giudicato. Me l’hai fatta tornare in mente all’improvviso leggendo il capitolo odierno della “Spunta blu”. Solo che questa volta non è questione soggettiva, personale, temporanea perché legata alla pazienza di crescere. Questa volta tu la usi in senso generazionale, nella scaletta un po’ illuminante e un po’ approssimativa che ci accompagna da quando la sociologia ha preso a esercitarsi su queste coordinate.

Io sono della generazione dei baby boomers. E ogni volta mi colpisce rendermi conto che solo grazie a questa definizione ci hanno orientato in avanti, per così dire. Quelli nati con il boom economico. Non quelli che sono nati dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dieci anni, se ci penso oggi, sono niente. Cosa succedeva nel 2010? Non è forse l’altro ieri? Ecco, nel 1955 la fine del cataclisma era appena un passo indietro. Eppure noi arrivati allora non ci abbiamo proprio mai fatto caso. Per renderci conto abbiamo dovuto studiare la storia. E magari guardare qualche film di quelli fatti fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Che so, sbalordirsi contemplando l’Eur in surreale lockdown - diremmo oggi - mirabilmente fotografato in bianco e nero da Michelangelo Antonioni ne “L’eclisse”.

Quindi mi sento di rispondere io alle tue figliole che no, non appartengono a una generazione che sarà ricordata solo per il Covid. Semmai, saranno la generazione a cui verrà attributo il merito di avere ricostruito dopo questo tsunami. Questo non vuol dire che non siano in questo momento l’ultima ruota del carro, anche se nessuno di quelli che ci governano sembra disposto ad ammetterlo e si fa un grande e caotico discutere sulla scuola e sui diritti dei nostri ragazzi. Ma il tempo passa rapidamente, e chi è ultima ruota oggi domani sarà alla guida del carro. A prescindere da chi governa.

Piuttosto, sono le tue ultime righe, quelle su cui in particolare vale la pena di riflettere. Una società che aprisse le piste da sci lasciando chiuse le scuole darebbe prova di una schizofrenia intollerabile e stabilirebbe una volta per tutte che l’ultima ruota del carro, culturalmente, socialmente, antropologicamente sono quelli che in questo momento prendono le decisioni.

Ma la generazione dei tuoi figli e di chi è ancora più piccino, quella ha un compito straordinario. Un ruolo decisivo avrà un aspetto che questa volta sfiori e che qualche giorno fa, nell’indicare i parallelismi e le differenze fra i ruggenti  Anni Venti del XX secolo e il decennio nel quale stiamo entrando a un secolo di distanza,  hai forse volutamente lasciato nell’ombra: la tecnologia.

Ecco, su questo io m’interrogo e le risposte che riesco a darmi qualche volta m’inquietano ma tutto sommato non di rado mi confortano. I nostri ragazzi non solo hanno a disposizione una tecnologia inimmaginabile alla loro età per voi delle Generazione X, figurati per noi “Boomers”. Soprattutto ce l’hanno “naturalmente”, la vivono istintivamente. Non sono frenati come noi, che nel migliore dei casi abbiamo l’atteggiamento di chi dice “sì, però”. Sono nati e vivono in una "realtà aumentata" che è autentica come quella che ci circonda. E sanno già che la perdita di socialità non è solo questione di una scuola chiusa o di una lezione a distanza. La socialità senza presenza “fisica" se la sono ricostruita molto rapidamente e continuano a farlo. Senza il freno di antiche categorie psicologiche o culturali. Anzi, con il propellente di nuove categorie psicologiche e culturali. Innate, oso dire, per gli ultimi arrivati. Sennò come potrebbe essere che la mia nipotina di 15 mesi, in video chiamata, mi faccia le stesse smorfie e gli stessi sorrisi di quando siamo a tu per tu? Io vedo un diaframma fra me e lei, nell’aggeggio che pure serve a metterci in contatto. Lei non sembra darsene per inteso. E ogni volta mi dà una lezione.

Cesare Galla

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Caro Cesare,

nel 1964 Umberto Eco diede alle stampe il saggio “Apocalittici e integrati”. Erano due categorie con le quali provava a incasellare gli intellettuali dell'epoca in base al loro atteggiamento verso quella che all'epoca veniva chiamata “cultura di massa”, pop diremmo oggi. Quelle due categorie possono essere attualizzate ai giorni nostri applicandole al nostro approccio alle tecnologie digitali. Gli “apocalittici” di oggi sono dunque i nostalgici del tempo analogico, del vinile, delle cabine del telefono a gettoni, dell'informazione solida, fatta di carta e inchiostro, macchine per scrivere e linotype. Gli “integrati” sono invece i sempre connessi, gli entusiasti delle protesi digitali del nostro corpo, i sostenitori della vita semplificata a colpi di clic, della smaterializzazione degli oggetti, sublimati dentro i nostri smartphone. Se stiamo dialogando in questa stanza virtuale, probabilmente entrambi ci troviamo più vicini al polo degli integrati: se fossimo apocalittici duri e puri avremmo scritto queste nostre riflessioni su pezzi di carta, li avremmo ripiegati, imbustati, francobollati e infine spediti.

La mia domanda è allora questa: chi oggi può dirsi davvero apocalittico? Chi può concedersi il lusso dell'analogico rifiutando il digitale? Scrivo “lusso” non a caso. La possibilità di sconnettersi era ancora un'opzione fino a un anno fa, ma da quando siamo precipitati nel gorgo della pandemia credo sia diventato un privilegio per pochi, pochissimi. Il virus è un potente acceleratore di tendenze in atto, di attitudini che si muovevano sotto la pelle della nostra epoca come fiumi carsici. E dunque sì, sono d'accordo, gli studenti di oggi erano più attrezzati e più allenati al balzo dentro la bolla digitale. Quanto accaduto negli ultimi mesi, tuttavia, ha trasformato quella bolla da libera scelta a necessità inevitabile.

Una vita online è diventata un obbligo per decreto, con implicazioni particolarmente stringenti e severe proprio per chi è nato nel secolo digitale, quasi che i millennials dovessero scontare una legge del contrappasso senza aver ancora avuto il tempo di meritare una pena. A eccezione dei misantropi impenitenti con inclinazioni agorafobiche, nessuno oggi può dirsi apocalittico a tutto tondo, nessuno può esercitare la libertà di restare analogico in un tempo digitale: la pena è l'esclusione dal lavoro, dalla scuola, dagli affetti, dall'essenza stessa dell'uomo aristotelicamente inteso come zoòn politikòn. In un mondo migliore di questo vorrei non solo che la scuola fosse messa nelle condizioni di aprire prima delle piste da sci, ma anche che la modalità “offline” non fosse un privilegio, ma un'opzione: anche per i super-integrati millennials. On-life e off-life. Il nuovo mondo d.c. (dopo il coronavirus) dovrebbe ricordarsi di ripartire anche da qui: dal diritto di connessione e dalla libertà di sconnessione.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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