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La spunta blu

La terza dose tra Hamilton e Verstappen

"Auto lanciata in corsa", Ivanohe Gambini
"Auto lanciata in corsa", Ivanohe Gambini
"Auto lanciata in corsa", Ivanohe Gambini
"Auto lanciata in corsa", Ivanohe Gambini

"La macchina da corsa perfetta è quella che si rompe un attimo dopo il traguardo" (Enzo Ferrari)

“Quello è una Primadose”. Mi dice proprio così, il tizio in fila accanto a me: Primadose tutto unito, come fosse una parola sola, non so se aggettivo o sostantivo. Al tavolino dell'accoglienza gli hanno chiesto se aveva la prenotazione, lui ha sussurrato qualcosa a bassa voce, come facciamo tutti al bancone della farmacia quando abbiamo un fastidio di cui ci vergogniamo, dall'altra parte non capiscono bene, ce lo fanno ripetere e poi loro ad alta voce: “Allora, per le emorroidi le posso dare questa crema”. Tu ti senti sprofondare, dietro trattengono il respiro e mentre esci alzando il bavero e accelerando il passo si liberano in un chiacchiericcio che farebbe arrossire anche un ladro di offerte nelle chiese. Il Primadose viene squadrato da tutti, un po' come si fa con gli studenti fuoricorso che vanno a dare l'esame di diritto privato ormai calvi tra matricole ancora brufolose; un po' come si fa quando dal vialetto vediamo apparire il figliol prodigo della parabola: non temere, meglio tardi che mai, andate a sgozzare il vitello grasso, oggi è un giorno di festa. Invece io mi sento un karateka: cintura nera di Pfizer, tre dosi come il terzo dan. Ho fatto le prime due in Fiera, in una sera di primavera quando ancora c'era il coprifuoco (sembra una vita fa, mamma mia) e in una mattina di estate acerba, senza afa e senza più restrizioni. La terza mi aspetta qui, in un gomitolo di corridoi avvitati nella pancia di un palazzo anni Ottanta che un tempo ospitava il quartier generale di una banca. Sembra destino, che qui nel profondo Nordest, locomotiva d'Italia eccetera, i vaccini per la ripartenza li andiamo a fare nei santuari dell'economia e della finanza, anche se non è semplice indovinare dove fossero sportelli e uffici che smistavano banconote, titoli, azioni e conti correnti dove ora sono stati incapsulati pannelli di legno e metallo per dividere i box dell'anamnesi. Mentre mi sento ripetere per la terza volta che se mi dovesse far male il braccio non dovrò fare altro che mettere ghiaccio e se invece dovessi avere febbre nulla di meglio della tachipirina, lo smartwatch mi segnala che per oggi ho centrato gli obiettivi salute: un cerchio di fuoco illumina lo schermo, sono solo le due del pomeriggio, ma in effetti sto camminando da venti minuti lungo percorsi obbligati, inequivocabilmente segnalati e comunque suggeriti da volontari che appaiono come folletti di Babbo Natale in ogni corridoio. Sto aspettando che trascorrano i quindici minuti dopo l'iniezione, il tizio che avevo accanto all'ingresso mi si siede vicino e mi appoggia una sua teoria, stralunata, ma non troppo: “Ha visto che roba la Formula Uno?”. Non sono appassionato, rispondo, ma non ho potuto restare indifferente all'ultimo gran premio. “Pazzesco – va avanti lui – ne parlano tutti, anche mia moglie che non sa nemmeno distinguere un'auto da un risciò. E sa perché?”. Dica, lo incoraggio. “L'ultimo gran premio è una metafora di tutta questa roba che stiamo vivendo. C'è un pilota che fila via liscio verso il traguardo, con un grande vantaggio su tutti, nessuno sembra più poterlo fermare, ha il controllo sulla corsa. Poi via radio gli dicono che dall'altra parte del circuito è successo qualcosa, un incidente. Ha presente quando ci hanno detto che dall'altra parte del mondo, in un posto mai sentito in Cina, avevano scoperto un virus? Abbiamo pensato: vabbè, affari loro. E invece. Così questo tizio, ancora convinto di avere il controllo della corsa nelle sue mani, ai lati della strada vede sventolare le bandiere che cambieranno il destino della gara: entra la safety car, l'auto della sicurezza, quella che annulla le distanze e le differenze, che rallenta il ritmo, che stravolge tutto, che ti sfila dalle mani il controllo della corsa. La safety car è il lockdown e tutto quello che continuano a imporre per metterci in sicurezza. Nemmeno il tempo di bestemmiare, che per puro scrupolo questo pilota dà un'occhiata allo specchietto retrovisore e vede il suo avversario infilarsi nei box e fare la cosa che gli consentirà di vincere: cambiare le gomme. Lo sa perché siamo qui tutti quanti, io, lei e anche il Primadose: perché abbiamo dato un'occhiata allo specchietto retrovisore e vogliamo cambiare le gomme per provare a restare in strada e magari riprendere il controllo delle nostre vite”. Qualcuno – obietto io – potrebbe dire che non è giusto, però, che quel pilota meritava di vincere perché si era conquistato un vantaggio con merito. “E da quando questa gara che è la vita è giusta?”. Il quarto d'ora è evaporato. Ci avviamo verso l'uscita. Mentre ci danno il certificato, il tizio mi saluta: “Farebbe bene a guardarla di più la Formula Uno: c'è sempre da imparare, e poi è un ottimo sonnifero per la pennica dopo il pranzo della domenica”, ride annodandosi la sciarpa prima di perdersi nei corridoi dove manager in tailleur grigi o camicia azzurra, cravatta regimental e polsini sempre abbottonati facevano girare il motore del Nordest. Dalle finestre vedo scorrere nervoso il traffico sulla regionale 11: è già Natale, penso, e non ho ancora fatto mezzo regalo.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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