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La spunta blu

La "nuova" normalità

Una scena dal film "A casa tutti bene"
Una scena dal film "A casa tutti bene"
Una scena dal film "A casa tutti bene"
Una scena dal film "A casa tutti bene"

«Io sto sempre in casa, esco poco, penso solo, sto in mutande, penso a delusioni, a grandi imprese, a una tailandese. Ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale» (Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”)
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Capita, tornando in città dalle vacanze, di parlare sempre più spesso di scuola, come rapiti da una strana forza di gravità che attrae pensieri e discorsi, portandoci tutti lì. E dopo ogni invettiva, polemica, sarcasmo, noi genitori chiudiamo sempre con le stesse due parole: speranza e normalità. Dopo due anni incredibili, eccezionali, straordinari, diversi, sembra che non desideriamo altro che una scuola normale. E sembra persino banale dirlo, come se fossimo tutti concordi in questa definizione di normalità come di un porto sicuro in cui mettere al riparo le nostre zattere guastate dalle onde del mare nella tempesta della pandemia. Andrea Pennacchi, in una scena del film “L’isola delle rose”, dice all’irrequieto figlio Giorgio, interpretato da Elio Germano: «Perché non ci riesci? Perché non ci provi a essere normale? Saresti più felice». Ma quello è un film che racconta una storia ambientata negli anni Sessanta: altra Italia, altro sentimento popolare. La normalità come strada maestra per la felicità sembrava un’idea arrugginita in quest’epoca tatuata con le parole scolpite da Steve Jobs all’università di Stanford: «Siate affamati, siate folli». Quella formula è diventata un mantra, una pietra angolare su cui abbiamo modellato comportamenti, stili, azioni. Non disse: «Siate nella norma». Disse: «Siate folli, perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero». Le piattaforme social hanno fatto il resto, offrendo l’illusione di poter distinguerci, di essere diversi, unici, speciali. Non normali. Abbiamo inseguito il mito della straordinarietà e dell’eccezionalità, non della normalità. E quindi ora fa effetto, a pensarci, questa speranza di una nuova normalità, come se la pandemia ci avesse condannato a questa nemesi: la paura che accada qualcosa (o qualcos’altro) fuori dall’ordinario, fuori dalla norma. Cosa sia, poi, questa normalità, è tutto da dire. Dovremmo metterci d’accordo, anche solo limitandoci alla scuola. Ci piaceva la normalità della scuola con le classi pollaio, con le nomine dei supplenti a ottobre inoltrato, con i ragazzi accalcati sugli autobus, con le caldaie a singhiozzo, i banchi risorgimentali, i programmi al salto perché non c’è tempo, con il bullismo, i ricorsi di genitori indignati contro le bocciature dei figli viziati, con gli insegnanti di sostegno che non si trovano, solo per dire alcuni dei vizi prima del virus? O per normalità intendiamo la scuola in presenza, costi quel che costi, pazienza se poi dentro le cose non funzionano, basta che i nostri figli non rimangano fuori in videolezione? Stefania Sandrelli, in una scena chiave del film “A casa tutti bene”, dice: «Le vite normali non esistono». E se la lezione di questo anno e mezzo fuori dall’ordinario fosse proprio questa? Che le vite normali non esistono più? Non come le intendevamo prima del virus, almeno. La nuova normalità su cui riponiamo le speranze potrebbe essere questo: una realtà in continuo mutamento. Forse, più che nutrire l’illusione di riportare il mondo al punto esatto in cui lo avevamo lasciato prima della pandemia, dovremmo iniziare ad allenarci ad attraversare questa realtà instabile, mutevole, sempre diversa, in trasformazione. Ne va della nostra capacità di comprensione, di reazione, di adattamento. L’immagine della normalità è una forma di umana consolazione, ma è anche un’illusione, come se le cose fossero sempre andate bene e non abbiano bisogno di essere migliorate. Scuola compresa.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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