“Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti” (Alessandro Manzoni, I promessi sposi)
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Ci stavamo persuadendo che alla fine di questa storia forse anche noi italiani avremo imparato a metterci in fila. Ci sono file ovunque per fare qualsiasi cosa: da un anno siamo pazientemente in fila. Aspettare il proprio turno, come da iconografia presidenziale: Mattarella seduto sullo sgabello della prechiamata come gli altri pensionati della leva - pardon - coorte del 1941. Poi una sera si presenta in tv un generale dell’esercito, con la divisa lastricata di nastrini e medaglie, e più o meno dice che da oggi è in vigore la “legge del primo che passa”: «Basta buttare dosi, chi passa verrà vaccinato». Quel generale è il nuovo commissario per l’emergenza covid. Sta dicendo che a un problema (l’elevata quota di persone che rinunciano al vaccino) risponderemo con un altro problema (improvvisazione e anarchia). Tu quoque, Figliuolo mio. Per lasciarci fare un po’ quello che ci pare bastava e avanzava il suo predecessore, Arcuri, quello dei banchi con le rotelle. Peccherò di fantasia, sarò certamente vittima dei più triti luoghi comuni, ma da un militare mi aspetterei ordine e disciplina, non la legge del primo che passa. Forse non dovrei sorprendermi: siamo il Paese delle lotterie degli scontrini, delle ruote della fortuna, dell’io speriamo che me la cavo. Ma che razza di criterio è? Altro che #iorestoacasa, come recitava la litania social durante il lockdown un anno fa. Il messaggio che plana su noi poveri cristi condannati agli arresti domiciliari delle zone rosse è che conviene uscire di casa e farsi un giro davanti a un centro vaccinale, pronti ad allungare un braccio, metti caso che avanzi una fiala, anche a costo di assembrarci uno addosso all’altro. Siamo dalle parti del salumiere a cui hai chiesto un etto di prosciutto, ma che mostrandoti le fette di culatello ti sussurra suadente: “È un etto e mezzo, che faccio, lascio?”. Abbiamo fame e sete di informazioni, tanta fama e tanta sete. Governo, regioni, sindaci, commissari, aziende sanitarie hanno l’obbligo della chiarezza. Diteci quali sono i criteri di vaccinazione, quali sono le categorie scelte in via prioritaria e quali sono i convocati nelle liste di riserva. Diteci come ci convocherete, ancora non l’abbiamo capito. Pubblicate ogni giorno una bacheca: oggi tocca a questi, quelli sono le riserve, domani se arrivano vaccini sono convocati Tizi e Semproni. Avanti il prossimo, non il primo che passa. Si chiamano chiarezza e trasparenza: non è così difficile, nemmeno in Italia. Fatelo, in cambio vi promettiamo di metterci in fila e di aspettare il nostro turno. Evitiamo le mezze voci, gli spifferi e i sussurri, i miti e le leggende, i “conosco uno che” e i “si dice” che hanno già fatto danni gravissimi con lo stop alle fiale Astrazeneca. Evitiamo di tirare a sorte, di giocare alla lotteria del vaccino. Evitiamo l’assalto al forno delle Grucce descritto da Manzoni: là la moltitudine avanza gridando “pane, pane, aprite, aprite”, qui l’urlo sta per diventare “vaccino, vaccino”.