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La spunta blu

L'invasione dei punti esclamativi

La celebre scena della lettera a Savonarola dal film "Non ci resta che piangere"
La celebre scena della lettera a Savonarola dal film "Non ci resta che piangere"
La celebre scena della lettera a Savonarola dal film "Non ci resta che piangere"
La celebre scena della lettera a Savonarola dal film "Non ci resta che piangere"

«Quando, come s’usa nei nostri tempi scamiciati, ne vedo due o tre in fila sul finir d’un periodo, che sembrano gli stecchi sul didietro di un’oca spennata, chiudo il libro perché lo sento bugiardo. Adesso v’è anche chi te l’accoppia con l’interrogativo, che par di veder Arlecchino appoggiato a Pulcinella. Tanto odio questa romantica lacrimuccia nera quando la vedo sgocciolare sulla povera candida pagina, che in essa mi immagino di scoprire or la causa or l’effetto, certo il chiaro simbolo di tutti i mali delle nostre lettere, arti e costumi. E se potessi far leggi, bandirei il punto esclamativo dalla calligrafia, dalle tipografie, dalle macchine da scrivere, dall’alfabeto Morse». (Ugo Ojetti)

Ho fatto un test per gioco. Ho preso i primi cento messaggi che mi sono venuti a tiro tra posta elettronica, WhatsApp, Facebook e Twitter in un giorno a caso e ho radiografato la punteggiatura: poche virgole, nessun punto e virgola, molti puntini di sospensione, vari due punti, ma soprattutto più punti esclamativi che punti interrogativi. Un bel po' di più. Dico meglio: molti messaggi che sono chiaramente delle domande, sono scritti senza punto di domanda; al contrario, i punti esclamativi appaiono anche accanto ai “grazie” o ai “figurati”. Non credo sia un caso, il risultato di questo test: mentre il punto interrogativo ha avuto giorni decisamente migliori, il punto esclamativo non è mai stato meglio. Non è sempre stato così, naturalmente: molto dipende dai social network e dalla necessità di dare un tono a messaggi che altrimenti si presenterebbero scoloriti. E però dice molto del tempo che stiamo attraversando, dei modi di viverlo questo tempo, di starci dentro, di farsi sentire o vedere. L'inflazione di punti esclamativi descrive società composte da singoli esseri umani traboccanti certezze, così persuasi della loro verità che trovano naturale gridarla. Il punto interrogativo è la bandiera di chi cerca di conoscere qualcosa in più; il punto esclamativo è la lancia di chi sa già tutto e non deve chiedere mai. Il primo è aperto, inclusivo, socievole, introduce una conversazione, un confronto. Il secondo è un cavaliere solitario, è esclusivo, non ha bisogno di una risposta, non è la premessa di un dialogo, semmai di un monologo. Il punto interrogativo costa fatica, è un mezzofondista che si prepara a correre lunghi tratti di strada per arrivare alla meta: l’esercizio del dubbio (non del sospetto, del dubbio) è un’arte antica che va allenata con pazienza e curiosità. Il punto esclamativo è uno sprinter, pigramente si infila nelle scorciatoie, detesta perdere tempo, ama la brevità, costi quel che costi. La domanda lavora di testa, l'esclamazione di pancia: ragione e sentimento, pensiero e azione, idea ed emozione. A questo serve il punto esclamativo: a esprimere emozioni, è uno squillo di tromba, un rullo di tamburo, un urlo, un acuto emesso per attirare su di sé le luci del palco, per prendersi la scena con la forza. E poiché è sempre meglio abbondare, raramente ormai appare da solo: uno non basta per misurare i livelli di stupore, meraviglia, approvazione, riconoscenza, rabbia o frustrazione, ne servono almeno due, tre, quattro. E dire che fino agli anni Novanta le grammatiche consigliavano di centellinarne l'applicazione come si fa con le eccezioni più che con le regole. Elmore Leonard, nel suo decalogo del bravo scrittore, esorta a tenere sotto controllo i punti esclamativi, concedendone due o tre ogni centomila parole. Negli anni Quaranta, Ugo Ojetti scolpì un celebre anatema: “Questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica”. La grammatica dei social lo ha eletto a icona di stile: e pazienza se da “punto ammirativo”, come era anche detto in origine, è via via diventato un “punto velenoso” per la frequenza con cui compare nelle invettive accanto a parole come “scandalo”, “vergogna” o “schifo”, dentro contesti più di odio che d’amore, più di rabbia che di ammirazione. Anche questo, sarebbe il caso di dire, è un segno dei tempi.
Ps: in redazione è nota la mia allergia per i punti esclamativi, quindi sono certamente di parte. Non lo amo, ma lo tollero. A un collega che mi chiedeva quanti gliene avrei concessi in un articolo, anni fa rispondevo: «Se potessi fissare un tetto, direi non più di tre in una carriera». Sono consapevole che quella contro i punti esclamativi sia una battaglia persa, forse persino di retroguardie, di quelle combattute da chi non si sente sintonizzato con i tempi che gli è toccato in sorte vivere. Mi arrendo, dunque. E però non intendo issare bandiera bianca sul pennone del mio bunker in difesa del punto interrogativo: sarà che le domande sono lo strumento del mio mestiere, ma preferisco vivere in una società piena di dubbi piuttosto che in un mondo fatto di certezze inscalfibili. 

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