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La spunta blu

In fuga dagli algoritmi: tornare a viaggiare

Una scena del film "Un treno per Darjeeling"
Una scena del film "Un treno per Darjeeling"
Una scena del film "Un treno per Darjeeling"
Una scena del film "Un treno per Darjeeling"

- Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
- Per andare dove, amico?
- Non lo so, ma dobbiamo andare.
(Jack Kerouac, "Sulla strada")

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Finisco di lavorare e sto per spegnere il computer. Mentre chiudo le finestre di navigazione da qualche sito si schiude un banner: è una pubblicità e reclamizza mensole e librerie. Mmm... oggetti per la casa. Devo aver sfogliato qualche catalogo on line o devo aver fatto qualche ricerca, chissà perché, chissà quando. Da quel momento sono inseguito da banner personalizzati che devono avermi scambiato per quel che non sono. Io non cerco cose per stare a casa: da casa sogno di uscirci. Questi diavoli di algoritmi sono intelligenti, ma non abbastanza per leggermi l'anima. Conoscono qualcosa di me per quel che ho fatto ieri, ma non sanno nulla di quello che vorrei fare domani. La pandemia ha fatto il loro gioco. Ha schiacciato la percezione dello spazio e del tempo comprimendole dentro la scatola del “qui e ora”: un presente ostinato e ripetuto in cui non solo i giorni si assomigliano l'uno all'altro, ma anche i luoghi sono sempre gli stessi. Viviamo sulla rotta casa-lavoro o casa-scuola, con poche deviazioni per fare la spesa, una passeggiata, andare in farmacia o da un parente. Per gioco inizio ad annotarmi qualche appunto su un foglio di carta. Compongo due elenchi. Il primo ha per titolo “Posso”: ci metto dentro le cose che ci è consentito fare. Dopo un po' mi accorgo che orbitano tutte intorno a una certa idea di sopravvivenza, cose che servono per tenere acceso il motore delle proprie esistenze, mangiare, bere, lavarsi, lavorare. Il secondo lo chiamo “Voglio” e ci impilo le cose che non possiamo, ma che vorremmo fare. Sono tutte parole che premono sull'acceleratore di esistenze sospese, ferme, limitate, inscritte all'interno di perimetri, tenute al guinzaglio. Poi ne cerchio una che sembra prendere forma unendo i puntini di tutte le altre: viaggio. Non sono al passo con gli ultimi sondaggi, ma se chiedessimo a chi frequenta questa stanza di cosa sentono più la mancanza, ai primi posti metterebbero il desiderio di viaggiare: quelli come noi, dicono, sono affetti dalla sindrome di wanderlust. Nel dizionario delle parole smarrite, le parole che non ci diciamo più in questi mesi rarefatti, appesi a divieti e limitazioni, “viaggio” va scritto in caratteri dorati e maiuscoli, perché è la causa e insieme l'effetto della pandemia. Il virus, come il più cinico dei terroristi, ha viaggiato alla velocità della luce su aerei, treni, autobus per attraversare il mondo e impedirci proprio di viaggiare su aerei, treni, autobus. Il più visibile risultato della pandemia è di aver staccato la spina al mondo, di avergli bucato le gomme, di averlo fatto rallentare fino a fermarsi. Dalla sua apparizione, il virus ha ampliato le distanze di un pianeta che non era mai stato così vicino, a portata, raggiungibile in ogni suo angolo. Sul mio foglio scrivo qualcosa che suona come un precetto da ripetere prima di andare a dormire e appena svegli, fino a mandarlo a memoria: “La prima cosa da fare: viaggiare”. Nell'idea di viaggio c'è un'idea di futuro, quella stessa idea di futuro che oggi ci viene impedito di nutrire per l'impossibilità di dire o sapere cosa saremo e cosa potremo fare fra un mese o un anno. L'algoritmo dei banner nemmeno lo sospetta, ma quello che desidero davvero è coniugare i pensieri al futuro: vorrei fare cose per piacere che nell’ultimo anno se ho fatto è stato solo per dovere. Ho bisogno di segnare due punti su una mappa, la partenza e l'arrivo, e poi unirli con una linea, non importa se retta o curva, quella linea è il mio viaggio, tracciandola sto disegnando un frammento di futuro, sto forando la bolla di presente perpetuo in cui mi sento imprigionato. Una mappa, mi serve una mappa. Non quelle di Google: non voglio far sapere cosa desidero, non voglio essere inondato di banner che mi ricordino la mia condizione di galeotto. Ci sono due parole in conflitto, che attraversano l’ultimo anno come la filigrana sulle banconote. Me le segno sul mio foglio, disposte su un’area che ricorda un campo di battaglia: le sto schierando come se fossero gli eserciti di un Risiko esistenziale. La prima è: digitale. La seconda è: analogico. La prima ha invaso fino a saturare ogni centimetro delle nostre giornate: per comunicare, informare, socializzare, lavorare, studiare, acquistare, prenotare dipendiamo da strumenti digitali. La seconda si è ritirata, ha accettato di uscire dal primo piano e di sfilare sullo sfondo, in un cono d’ombra, perché analogica è soprattutto la vita di prima, quello che eravamo ancora, almeno in parte, prima che digitale fosse la nostra scialuppa di salvataggio per non isolarci da tutto e da tutti. Sono immerso anch’io come tutti nel mare grande dell’era digitale, ci nuoto e ci sguazzo, indietro non potrei tornare. Però se questo diario di bordo che sta prendendo vita sul mio foglio di carta è la promessa di poter fare qualcosa di diverso da quello che ho potuto o dovuto fare in questo ultimo anno, allora giochiamocela fino in fondo e proviamo a pensare questo viaggio come a una fuga, un’insurrezione alla nuova normalità dell’era covidica. Il mio sarà allora un viaggio diverso, nuovo nel suo essere antico, inattuale, senza app né motori di ricerca, voglio perdermi per ritrovarmi da solo, senza la possibilità di essere cercato. Sarà sconnesso. Libero. Analogico, come un vecchio 33 giri. Musica, è il momento di mettere della musica. Cerco tra i vinili, scorrendoli con l'indice e il medio, la testa piegata di lato per leggere i titoli sui bordi. Le dita rimbalzano veloci sui dorsi delle copertine fino a estrarre Keith Jarrett, “The Köln Concert”, un disco che parla di strade polverose, di imprevisti, di giornate storte, di corse in auto tra Svizzera e Germania, nel ventre d’Europa, con la mappa sul cruscotto per arrivare in tempo a teatro, dove ti aspetta l'accordatore con il pianoforte sbagliato, proprio quello che non volevi, eppure l’avevi fatto scrivere nel contratto, ma è tardi per mandare tutto all'aria, perché i primi spettatori si stanno accalcando in biglietteria, così decidi che suonerai sfidando Saturno contro, scaldi le dita, insegui una nebulosa di note che ti attraversa le tempie e improvvisi scaricando sui tasti bianchi e neri una melodia di pieni e di vuoti, come pieno e vuoto è stato il tuo viaggio per arrivare su quel palco, perché piena e vuota è la vita stessa e ora che ci sembra vuota desideriamo solo di tornare a riempirla. Sì, viaggiando. Il disco è sul piatto, la puntina inizia a frusciare sui solchi del vinile. Ecco, questo viaggio mi aspetto che suoni così, come questo fruscio, dal quale si stacca un alito di umanità che non troverò mai nelle piattaforme digitali: ho bisogno di un soffio di passione, di palpitazioni e batticuore, di calde imperfezioni e sospiri di fragilità dopo mesi accucciati in casa alle dipendenze di telefoni, tablet e connessioni wi-fi. Mi serve una mappa, dunque. Rovisto dentro un baule, dove anni fa ho parcheggiato delle cartine stradali, testimoni mute di quando le auto si arrestavano con le quattro frecce ai lati delle vie di campagna per interrogare il primo passante: dove siamo, dove andiamo? Mi basta scoperchiarlo per essere inondato da un inconfondibile profumo di carta invecchiata che mette in moto sensazioni, ricordi, vibrazioni. Good vibrations. Gioco al piccolo Chatwin: dalle cartine risalgono suoni e odori delle dune di sabbia rossa, di acqua di mare e risacca, di sacchi neri e gialli e marroni nei mercati delle spezie, di brughiere inumidite dalle mattine di pioggia, di piazze che brulicano di vita nelle sere d’estate, di pelle abbronzata e sudata, di foglie ingiallite negli autunni del nord, dell’andamento lento delle carrozze sferraglianti con il fiato grosso su binari arrugginiti, delle maioliche sulle scale della metropolitana, dei violini suonati all’angolo dei boulevard, proprio davanti a quel bistrot in cui ci guarderemo e ci baceremo tenendoci per mano. Immagino, posso. Come Emilio Salgari esploro mondi lontani senza uscire da questa stanza. Come i cartografi alla corte di Carlo V traccio rotte, oltrepasso confini, asciugo i bordi di coste remote e approdo sui moli di porti misteriosi avvolti in una nebbia indaco. Come il vecchietto di "Up" sto gonfiando i palloncini che faranno volare questa casa verso la mia destinazione. Come Clint Eastwood progetto la mia fuga dall’Alcatraz della pandemia: lui vede un piccone per grattare il muro della cella scrostato dalla salsedine dove tutti gli altri vedono un tagliaunghie, così questa matita va veloce come un aliscafo, questo foglio di carta si allunga come un braccio di mare e queste mappe sono quello che rappresentano: città, montagne, strade, ponti, pianure. E ora prova a prendermi, se ci riesci, diavolo di un algoritmo.
gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it
 

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