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La spunta blu

Impressioni di ottobre: la grande sete dei fiumi

Una scena dal film "Welcome Venice" di Andrea Segre
Una scena dal film "Welcome Venice" di Andrea Segre
Una scena dal film "Welcome Venice" di Andrea Segre
Una scena dal film "Welcome Venice" di Andrea Segre

"Non bevo alcolici. Non per virtù, ma perché c’è una bevanda che mi piace di più: l’acqua" (Jorge Luis Borges)

El canal, chi gà sugà el canal? Come in quel vecchio spot pubblicitario, verrebbe da chiedersi chi abbia asciugato il letto del Timonchio, primo e irrequieto affluente del Bacchiglione. Non mi era mai capitato di attraversarlo a piedi. Senza bagnarmi, intendo. L’ho fatto sabato quando sono passato da un argine all’altro, all’altezza degli ormai vecchi campi di allenamento del Lanerossi, a due passi dal monumentale bacino di Caldogno che dovrebbe regolare le piene e proteggere Vicenza. Queste non sono altro che impressioni di ottobre: non sono un meteorologo, ma ho un po’ di memoria. Undici anni fa proprio qui, su queste pietre e tra queste sponde, il torrente ribolliva come una pentola a pressione, preparando l’alluvione di Ognissanti. Oggi è un’autostrada di sassi chiari che si apre in mezzo alla campagna: osservato dall’alto si direbbe un cantiere prima dell’asfaltatura. Ci saranno venti gradi, il sole illumina i colori di un autunno così fotogenico da farci dimenticare che questi sono gli ultimi giorni di ottobre: in questo stato il fiume non l’avevo visto nemmeno a luglio. Eppure qui l’acqua non manca mai. Siamo nelle terre rare delle risorgive, la banca centrale europea dell’acqua, che sgorga spontanea da ogni canale: basta piantare un tubo a terra e aprire il rubinetto. Bastava, forse. Questo è un luogo dell’anima veneta, dove andare per ritrovare le radici e l’identità: l’odore dei campi esausti dopo il raccolto del granturco, le pannocchie stese al sole, il lento mulinare dei trattori, il volo degli aironi e delle tortore, le castagne sulle braci, il lesso lasciato a brontolare a fuoco lento dietro i vetri appannati delle poche case di mattoni rossi e legno scuro tra sentieri ghiaiosi e acquitrini sorvegliati dai salici. Altrove il marketing turistico ne avrebbe fatto una cartolina del foliage, meta di pellegrinaggi per apprendere il mistero di una terra immersa nell’acqua in perfetto equilibrio nel dare per dissetare o lavare e nel ricevere, in forma di pioggia dal cielo o di neve dalla montagna. Ipnotizzati dal bla bla bla della narrazione sulla sostenibilità, dovremmo prenderci il tempo di camminare con lentezza in questo ombelico del Nordest per misurare la febbre del pianeta: questi acquitrini e questi torrenti sono il termometro local che segnala un malanno global. La grande sete di questo torrente dove il vento sposta grovigli di rami secchi come in un western girato in Arizona è una spia rossa accesa sul cruscotto nel nostro stile di vita: occhio, nel motore qualcosa non gira come dovrebbe, meglio fermarsi e fare manutenzione. Eppure. Non facciamo che ripeterci che è questione di cultura, che serve un’educazione prima di un’azione. Tutto vero. Poi però ci riversiamo su Facebook a lagnarci per i due giorni e mezzo senza sole di questo ottobre californiano. Ne abbiamo bisogno, eppure la  pioggia non è mai salutata come una festa: è sempre un tempo orribile che immalinconisce impedendoci di vivere come vorremmo, con il sole perennemente in fronte. Il sogno collettivo celebrato su Instagram è di inanellare un’infinita serie di giornate luccicanti, con il cielito lindo e un’aria caliente: come in Florida o in Messico, peccato che siamo in Italia, in Veneto. Dovremmo ripartire dalla parole. Pensate all’equazione pioggia = maltempo. Pensate all’ossessione per il rischio zero: siamo diventati bravissimi a difenderci dall’acqua, ma non riusciamo a trattenerla per stiparla nelle falde, come facciamo con i risparmi di una vita nel conto in banca. E qui sta il cortocircuito di quest’epoca: il guaio è che prima o poi la bilancia idrica probabilmente andrà in pareggio, alta e bassa pressione si compenseranno, ma lo faranno con fenomeni estremi, disastrosi, come accade con allarmante puntualità in coda a ogni stagione asciutta. Gli eventi furiosi che con scarsa fantasia noi giornalisti chiamiamo “bombe d’acqua” devastano senza nutrire, arrivano e se ne vanno come barbari saccheggiano antiche città. Stiamo smarrendo l’equilibrio tra il dare e il ricevere, come insegna questa terra rara sospesa sulla banca centrale europea dell’acqua. 

 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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