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La spunta blu

Il turno delle otto in palestra

Fernando Botero, "Contorsionista"
Fernando Botero, "Contorsionista"
Fernando Botero, "Contorsionista"
Fernando Botero, "Contorsionista"

“Gente che va su e giù per le scale mobili, negli ascensori, che guida automobili, le porte dei garage che si aprono schiacciando un pulsante. Poi vanno in palestra per smaltire il grasso”. (Charles Bukowski, “Il Capitano è fuori a pranzo”)

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“Plank, novanta secondi”. Del mio personal trainer conosco solo la voce. Ha un timbro radiofonico, a metà strada tra le previsioni meteo e l'aggiornamento sul traffico. Lui di me non sa nulla, nemmeno se gli esercizi li faccio per davvero o se faccio finta. Da qualche mese ho ricavato in un angolo della veranda la mia palestra personale: mi srotolo su un tappetino per flettere addominali e pettorali, sollevo una serie di secchi pieni di sabbia e sassi, agito in aria bottiglie d'acqua da un litro e mezzo, allineo le sedie come se fossero panche, saltello sul posto, mi agito con manici di scopa e palloni da calcio. Palestra è la nuova arrivata nel dizionario delle parole smarrite in questi mesi di divieti e limitazioni, parole che non pronunciamo più perché non servono più o perché indicano luoghi chiusi e spenti dai decreti. In palestra ci siamo andati tutti, presto o tardi. “Calciata volante inversa”, mi ordina la app del telefono. Mi fa compagnia Cartesio, lo stregatto che appare e scompare dietro la siepe: attraversa il giardino, viene a spiarmi, spera in un avanzo di cena, arruffa il pelo intorno a uno dei secchi. Mentre mi allungo sul tappeto lui mi fissa e piega di lato la testa: mi ricorda la smorfia dell'istruttore, quello vero in carne e ossa, quando caricavo sulla schiena pesi che avrei dovuto gestire con le spalle e le braccia. Io ci andavo da dieci anni, in palestra, da quando sono nate le mie figlie: all'inizio pensavo fosse un modo per esorcizzare quel che si dice degli uomini che diventano padri, sapete, la storia che ci imbolsiamo perché lo sport smettiamo di praticarlo e finiamo per contemplarlo. In tv. Sul divano. Ora che il divano ha avuto la sua rivincita sul tapis roulant, c'è da augurarsi che legioni di medici e nutrizionisti in questi ultimi cinquant'anni si siano completamente sbagliati nel promuovere la filosofia “mens sana in corpore sano”, altrimenti dopo un anno di crociate contro la vita sportiva e di celebrazione della vita sedentaria prima o poi il telepass della salute ci presenterà il pedaggio. “Rotazione gamba da terra, 60 ripetizioni, 30 per lato”. Il mio era il turno delle otto del mattino: portavo le bambine a scuola e poi andavo ad allenarmi, prima di entrare in redazione. Quella era l'ora dei palestranti, più che dei palestrati: stagionatura avanzata, età media sui 60 andanti, ritmi rallentati, musica easy, pesi morbidi, addominali da trattoria. L'obiettivo, più che migliorare, era non peggiorare. Spesso fantasticavamo sul turno delle otto alla sera: tricipiti torniti, glutei marmorei, gioventù sudata, la legge della domanda e dell'offerta di ormoni sul libero mercato dei bilancieri. Ero entrato in punta di piedi, in incognito fino a quando un giorno nello spogliatoio mi aveva affrontato il Capo. Lo chiamavano tutti così, non ho mai saputo il suo vero nome. Il Capo era una figura ieratica, che godeva del rispetto di tutti. Quando entrava in sala le chiacchiere si placavano, le donne si sbracciavano per sorridergli, gli uomini accennavano un inchino con mezzo passo indietro e gli cedevano gli attrezzi. Occhi di ghiaccio e viso a spigoli, un Clint Eastwood dei Pomari. Era un concentrato di maschio alfa, un maschio alfa senza collo e non più alto di un metro e 60, forse un metro e 58, con una protesi all'anca che se possibile accresceva l'aura mitologica da lupo di mare: portava la zoppia come un pirata la benda sull'occhio. Si diceva che il Capo avesse 85 anni: eppure, dopo un'ora di palestra si sparava un'ora di piscina. La leggenda, come tutte le leggende cotte e mangiate in palestra, si nutriva tra molti “si dice” e “pare che” soprattutto delle narrazioni sulle titaniche esibizioni di una indomabile e insaziabile prestanza sessuale, che si manifestava con puntualità kantiana ogni giorno al crepuscolo, nell'ora più dolce, durante “La vita in diretta”. “Ragazzo – mi disse - ti do un consiglio: non è così che troverai un lavoro”. “Così come?”. “Venendo in palestra a quest'ora”. “Ma io non sono disoccupato, un lavoro ce l'ho”. “E che lavoro sarebbe?”. “Lo sai tenere un segreto, Capo?”. “Sarò una tomba”. “Sono un giornalista”. La mattina dopo lo sapevano tutti. E così fui adottato. Ero il più giovane della brigata, praticamente la mascotte, mi interrogavano su tutto, dalle rotatorie di Cicero al Napoli di Sarri: allenavamo più la lingua dei bicipiti. Al Bersaniano interessava solo di Renzi. A ogni curva della politica italiana mi interrogava quasi fossi un oracolo: “Questa volta lo fanno fuori, vero?”. Malcolm X aveva lavorato in quale ufficio pubblico prima di diventare l'idolo della sala pesi: con inclinazioni grilline, era il paladino dei diritti civili, ossessionato da Salvini e dagli hooligan della famiglia tradizionale. Sciopenauer, un tizio che dopo la pensione si era lasciato crescere i capelli imitando John Travolta in Pulp Fiction, era il poeta-filosofo del gruppo, in palestra cercava il senso ultimo dell'esistenza e si era persuaso di averlo trovato il giovedì mattina: “Giovedì gnocca”, andava sentenziando. La Cassazione. L'ardita metafora gli era sgorgata in una mattina nebbiosa di ottobre così, su due piedi, mentre cercava un manubrio da tre chili rimirando in un complicato gioco di specchi il sinuoso ingresso delle gemelle Transilvania. Si mormorava che in una gioventù acerba fossero state ginnaste, riciclatesi poi come ballerine di lap dance nelle notti del Nordest: avevano corpi statuari che mettevano in vetrina con vertiginosi squat messi in onda alle otto del mattino, l'ora in cui sugli schermi delle cyclette scorrevano i pensosi dibattiti di Agorà e Omnibus su maggioritario e proporzionale. Il lunedì era il giorno più affollato: tornavano tutti in palestra per redimere i corpi dopo le grigliate e le bevute del fine settimana, proprio come la domenica andavano in chiesa a confessare i loro peccati in cerca di assoluzione per le loro anime. Lì, tra la pectoral machine e la leg press, si stava come in certi Bar Sport di una volta, ma senza le grappe e le carte, senza il fumo né la Gazzetta: mentre sudavamo correndo al due per cento di pendenza, oltre i vetri delle finestre le stagioni si davano il cambio sempre diverse e sempre uguali, in un ciclo che ci appariva imperturbabile, cascasse il mondo. Poi il mondo è caduto sul serio e anche quella liturgia si è interrotta: chi l'avrebbe detto? “Crunch a gamba alta, venti ripetizioni”, dice la voce dal telefono. Questo non lo facevo bene mai. Mi fa effetto dover usare i verbi coniugati al passato. Vorrei tornare al presente, ora che siamo in piena crisi di governo per mano di Renzi vorrei misurare la bile del Bersaniano, chiedere a Malcolm X come se l'è cavata con le autocertificazioni per conviventi e congiunti, spiare Sciopenauer mentre spia le gemelle ballerine, e ritrovare il Capo, come quel giorno nello spogliatoio, e fargli dire qual è il segreto dell'alzabandiera, se davvero è “La vita in diretta” il sacro graal, anche se sarebbe fatica sprecata, tanto non me lo direbbe, perché nessuno tiene i segreti come il Capo. “Passo dello scalatore, 30 per gamba”. Cartesio sbadiglia e fila via, sculettando come se fosse giovedì mattina. Una nuvola di vapore si stacca dall'ultima ripetizione. Si può restare soli certe mattine qui, chi s'accontenta gode così così. Certe mattine sei sveglio o non sarai sveglio mai. Ci vediamo in palestra prima o poi.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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