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La spunta blu

Il tempo della convalescenza e il rischio ragionato

Una scena del film "I Tenenbaum"
Una scena del film "I Tenenbaum"
Una scena del film "I Tenenbaum"
Una scena del film "I Tenenbaum"

“Ma è solo un attimo, come dire, un errore di distrazione” (Brunori Sas)

Sono seduto davanti allo schermo del pc con l'aria stropicciata di chi se l'è vista brutta, ma che nella sfortuna può dirsi fortunato. Da tre giorni sono a mezzo servizio: monomano o diversamente mancino. Posso usare solo il braccio destro, il sinistro è imbragato dentro un tutore e ci resterà per tre settimane. Il tutore mi dona una postura a metà strada tra la fierezza decadente di Napoleone ritratto in esilio sull'isola d'Elba con il braccio infilato dentro la giubba e la stoica resilienza di Franz Beckenbauer sotto il sole e nell'aria rarefatta di Città del Messico durante Italia-Germania 4 a 3, el partido del siglo, quando gli venne fasciato un braccio a causa di una lussazione alla spalla. Proprio quello che è capitato a me, senza che almeno potessi fregiarmi del titolo di imperatore. Tra parentesi, a nessuno dei due portò bene fare a meno di un braccio. Il primo era atteso dalla disfatta di Waterloo, il secondo dal piede destro di Gianni Rivera. L'altra mattina ero uscito di casa in punta di piedi, senza sognare di piegare le resistenze delle truppe inglesi e prussiane su un falsopiano alle porte di Bruxelles, né di battere gli azzurri per poi sfidare il Brasile di Pelè in finale. Volevo solo fare un giro in bici. Peccato che dopo trecento metri, mentre infilavo i guanti, la ruota anteriore si sia imbufalita su una di quelle orrende cicatrici rosa lasciate sull'asfalto dalla posa della fibra ottica, finendo per mettersi di traverso e sbalzandomi sul marciapiede. Capita anche ai migliori, mi giurano, e dunque figurarsi ai peggiori. Mia figlia al telefono non voleva crederci: “Papà, dimmi che ti sei sfracellato dopo aver fatto una discesa ai cento all'ora, dimmi che sei scivolato fuggendo da una banda di narcotrafficanti durante un'inchiesta giornalistica o qualcosa di vagamente eroico che giustifichi tre settimane senza un braccio e che io possa raccontare alle amiche senza vergognarmi”. Ehm, no, nulla di eroico, solo un errore di distrazione, un incidente privo di gloria e di bellezza, che avrebbe fatto dire a tua nonna “scantabauchi”. Ero ancora in ospedale, avvitato per il dolore come il tronco di un ulivo su una seggiola in attesa di fare i raggi, quando, mentre iniziavo già a scivolare nella grande lentezza della mia convalescenza, sul telefono è partita la processione dei primi messaggi. Molti sembravano indirizzati da aruspici e finivano con oscuri ammonimenti oracolari del tipo “nulla accade per caso, cerca di leggere i segni”. Messaggi e segni: che lo sport facesse male, non è più una novità, è un anno che ce lo vietano in tutti i modi, che ci dicono che non è l'attività, ma la passività la panacea di questo male, che non sono una nuotata o una corsa, ma il divano e la poltrona le zattere che ci metterà in salvo in questa tempesta. Sono sempre poco incline a cercare significati dove i significati non per forza devono esserci. Così, per gioco, mentre l'ortopedico scrutava le lastre e mi esortava a rilassare i muscoli prima di avviare la salvifica “manovra” per rimettere l'omero al suo posto, quasi fossi un armadio Ikea a due ante, mi convincevo che fosse stata una qualche nemesi. Sì, ma punizione per quale peccato? Per quale forma di arrogante sfida verso la sorte gli dei dello sport mi avrebbero dimezzato il numero delle braccia in dotazione? Avevo indossato anche il caschetto (e ci mancherebbe), non stavo tentando nulla di pericoloso o sovrumano: e dunque? Forse ho peccato di alto tradimento, questa è la verità profonda che leggo tra le righe dei segni. Fino all'ultimo ero stato indeciso se andare a correre o a pedalare. La corsa è il mio primo amore. Sportivamente, è come se con la corsa fossi sposato da molti anni: tra alti e bassi, come in tutti i matrimoni, ci siamo sempre voluti bene. La bicicletta è una infatuazione più recente, una passione generata dalla carestia sportiva della pandemia: niente palestra, niente piscina, proviamo a pedalare. Se la corsa è la moglie, la bicicletta è l'amante. Venerdì mattina avevo un po' di tempo, quello che non avrei avuto sabato, così ho deciso di pedalare venerdì e correre sabato. E infatti un amico mi ha fatto subito notare che all'amante-bicicletta avrei riservato un rapporto all inclusive, dai preliminari alla coccola finale, mentre alla moglie-corsa una sveltina di routine: eccolo lì il peccato originale. Caspita, non l'avrei mai immaginato: quindi ho tradito la moglie-corsa, mi sono macchiato di bigamia e per questo sarei caduto fino a lussarmi una spalla? Intanto inizio a prendere le misure alla mia nuova vita lenta e dimezzata: non posso lavarmi le mani, ad esempio, o allacciarmi le scarpe, scrivo senza maiuscole né punti di domanda o parentesi o virgolette. Anche solo per accendere il pc devo fare una acrobazia a falangi dispiegate per la fatidica combinazione “control+alt+canc”, l'”Apriti Sesamo” dei nostri tempi. È un mondo per bimani, poco o nulla è a portata di una sola mano. Ad ogni accenno di pessimismo cosmico, però, si fa avanti qualcuno che mi ricorda che poteva andare peggio: “Guarda che hai avuto un gran culo, ricordatelo”. Mo' me lo segno, come dice Massimo Troisi in “Non ci resta che piangere”. Mia suocera mi fa recapitare una teglia fumante di riso al forno accompagnata da un monito severo, ma giusto: “Mi raccomando – mi scrive - fai tutto a piccoli passi, in fondo gli eroi sono dei gran coglioni a cui raramente va bene”. Ancora con gli eroi. Io volevo solo fare un giro in bici. “Un giorno capirai che non c'era niente da cambiare, non c'era niente da rifare, bastava solo aver pazienza ed aspettare che le cose, che ogni cosa si aggiustasse da sé”, canta alla radio Brunori Sas, che nella mia vita irrompe ogni volta che mi ritrovo con le chiappe a terra. Mi guardo allo specchio, non ci vedo nulla di eroico, solo un tizio con la barba e i capelli in disordine con un braccio fasciato e – tanto per cambiare - una morbida, comoda, informe tuta. Ormai sono la reincarnazione di Chas Tenenbaum, sempre in tuta Adidas, lui e i suoi figli. La tuta è più di una divisa di questo anno disgraziato: è un abito mentale, una condizione dell'anima, lo spirito di questo tempo. E forse questo è l'unico segno davvero decifrabile in coda a questo stupido infortunio e in cima a tre settimane con una mano sola senza maiuscole: è un tempo di convalescenza, pubblica e ora anche privata, un tempo di transizione tra malattia e guarigione, tra infezione e immunità. Un tempo di attesa, rinuncia e pazienza, non esattamente le virtù cardinali della mia generazione. “Che fai?”, mi chiede un collega al telefono. Cammino, non posso fare quasi nient'altro, così ogni giorno cammino un paio d'ore: è la legge del contapassi più che del contrappasso, quella che mi è toccata in sorte. “Vai a guardare i cantieri, sei diventato un umarell”, ride lui. Bè, non ancora, anche se ormai ci siamo, pigolo io, mentre mi immagino di convocare una conferenza stampa per annunciare il mio ritiro da ogni disciplina sportiva. “Hai sentito Draghi?”. No, ero in ospedale: che ha detto? “Si riapre, ripartiamo, c'è il rischio ragionato”. Che sarebbe come se io tentassi di allacciarmi le scarpe da solo o di premere contemporaneamente i tasti “control+alt+canc” per avviare il computer. “Più o meno”, mi dice lui. Però se poi la spalla mi si smonta di nuovo ho buttato via la convalescenza. “Non ti riconosco più, oltre alla spalla devi aver battuto la testa. Questo è il momento del rischio ragionato, non di mettere le mani avanti”. Al massimo ne posso mettere una, di mano avanti. Vero, però, si respira una certa euforia nell'aria, il futuro forse non è ancora una palla di cannone accesa, ma ha la forma di un aperitivo ordinato in un dehors allestito sulle strisce blu di una via trafficata, mentre io resto chiuso nella mia personale zona rossa, condannato a queste passeggiate da criceto, in tuta, senza le maiuscole, senza poter fare l'eroe per la gioia di mia suocera e la delusione di mia figlia, camminando lento, più lento, mentre ogni cosa si rimette in moto veloce, più veloce. Forse davvero la caduta non voleva dirmi che questo, che è il tempo della convalescenza: non siamo più malati, ma non siamo ancora guariti.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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