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La spunta blu

Il tavolo degli uomini e altre discriminazioni

Isaac Maimon, "Le parigine al Cafè"
Isaac Maimon, "Le parigine al Cafè"
Isaac Maimon, "Le parigine al Cafè"
Isaac Maimon, "Le parigine al Cafè"

«Se ora rinunci al calcio, domani a cosa rinuncerai?» (dal film “Sognando Beckham”)
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All’inizio del film dedicato al Divin Codino c’è una scena girata nella sala da pranzo della famiglia Baggio. Il tavolo è rettangolare: ha due lati lunghi e due lati corti. Di solito diciamo che chi si siede sui lati corti è seduto a capotavola. È una convenzione, nient’altro. Eppure resiste. Quando c’è da sottolineare una gerarchia, anche in occasione di una banale e ordinaria cena, state pur certi che troverete un tavolo rettangolare. Nella scena del film sui due lati corti, a capotavola, sono seduti il padre Florindo e Roby. Mamma e sorelle sfilano ai lati. È anche un’esigenza scenica: il film è giocato sul rapporto tra il futuro campione e la figura paterna. Però scene come quella punteggiano i ricordi di infanzia di molti, se non di tutti: tavoli rettangolari, uomini seduti a capotavola. Ho fatto un giro largo per dire due cose sulla storia di Aurora Leone, che ha denunciato di essere stata cacciata dalla cena della Partita del cuore perché donna. In mezzo al polverone che si è sollevato, più di una voce ha provato a spostare il tiro sui modi e i metodi della denuncia più che sulle forme e i contenuti dell’episodio. Che Aurora abbia o meno esagerato mi interessa poco. Qui vorrei tenere la luce sulla scena: una donna a cui piace il calcio, che vuole giocare una partita di pallone per una causa nobile, viene invitata a lasciare il suo posto a tavola perché quella sarebbe una faccenda da uomini. A me ha ricordato il sofagate, l’incredibile incidente diplomatico della sedia e del divano durante il vertice tra Unione europea e Turchia, quando Ursula Von der Leyen scoprì che c’erano solo due sedie, per il padrone di casa Erdogan e per il presidente del consiglio europeo Michel: a lei era stato destinato un divanetto parcheggiato ai lati del set allestito a uso di fotografi e telecamere. Come quando ci si siede a un tavolo rettangolare e a capotavola si siedono i maschi per diritto divino o per legge di natura, come direbbe il senatore Simone Pillon, che assegna alle studentesse discipline di accudimento e agli studenti materie scientifiche. In qualche misura, questo è anche un effetto collaterale delle quote rosa: l’importante è riservare un posto per le donne, non importa dove, non importa se in fondo a una lista elettorale o su un divano ai margini. Le quote rosa sono probabilmente il male minore, ma sono anche diventate un abito mentale, una camicia di forza burocratica basata sulla quantità e non sulla qualità. Della cena prima Partita del cuore e del sofagate mi impressiona un copione pressoché identico: l’assenza di reazioni nel momento in cui le cose accadono. Sono due storie di discriminazioni fuori dal tempo, di abusi di potere medievali, che indignano e disgustano nella loro ostinata protervia. Dopo, però. Mai durante. Mai mentre una donna viene fatta sedere sul divanetto degli ospiti meno importanti o viene allontanata dal tavolo degli uomini: tutti restano indifferenti davanti all’“ehm” esclamato dalla numero uno della commissione europea, Michel nemmeno ci pensa né a protestare, né ad alzarsi e cedere la sua seggiola. E queste sono due costanti molto precise nella loro frequenza: da una parte la gestione dello spazio e degli arredi viene caricata di una valenza politica per affermare privilegi, gerarchie, ruoli; dall’altra c’è sempre qualcosa di più importante di alzarsi e scendere dal palco, chiarendo che non si tornerà in scena finché non verrà sanata la ferita e non verrà ricomposto lo strappo porgendo le scuse. Queste sono occasioni in cui una certa idea di mondo, come un fiume carsico che scorre sotto la superficie, riaffiora all’improvviso in forme aggressive e violente: quella certa idea di mondo mette il maschio al centro del sistema solare. Come il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick non sa resistere a un tic che gli fa scattare il saluto romano contro la sua stessa volontà, così questo maschilismo becero è un riflesso incondizionato, un muscolo dello spirito che si mette in moto senza preavviso. Ma è un’idea di mondo superata, che ha costi sociali ed economici insostenibili, come dimostrano tutte le proiezioni sull’eliminazione delle diseguaglianze di genere, uno degli obiettivi inseriti nell’Agenda 2030 dell’Onu: in una società che promuove la parità di genere ne guadagnano benessere, tasso di occupazione, livello salariale, prodotto interno lordo e ricerca della felicità. Di tutti, anche degli uomini. Qui stanno la miopia e lo strabismo di queste posizioni di retroguardia, come la convinzione che le materie scientifiche siano per "natura" adatte ai maschi: sono vecchie incrostazioni che rallentano crescita e sviluppo. Per questo ogni volta che leggo di queste prepotenze paleolitiche mi vengono in mente i soldati giapponesi dispersi nella giungla delle isole tropicali molto tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, convinti che il conflitto sia ancora in corso perché nessuno li ha informati della pace: qualcuno avverta questi signori che la loro guerra di abusi e soprusi per la quale combattono è finita in un’altra epoca e in un altro mondo. Avvertiteli che hanno perso.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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