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La spunta blu

Il paradosso della mascherina, nuova coperta di Linus

René Magritte, "Il figlio dell'uomo"
René Magritte, "Il figlio dell'uomo"
René Magritte, "Il figlio dell'uomo"
René Magritte, "Il figlio dell'uomo"

"Sicurezza è avere un cassetto pieno di calze di lana" (Linus)

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Da piccolo avevo un incubo ricorrente: uscivo di casa per andare a scuola e scoprivo di non avere le scarpe; provavo imbarazzo e vergogna, mi sentivo nudo e indifeso, il sogno diventava un’agonia nell’affannosa ricerca di un paio di scarpe che placassero quella sensazione di disagio profondo. Negli ultimi sedici mesi mi è invece capitato di fare un altro sogno ridondante, sempre uguale: trovarmi in luoghi affollati senza la mascherina. Nonostante il bombardamento politico e mediatico sulla fine imminente dell’obbligo all’aperto come se fosse il cessate il fuoco di qualche guerra, due vicentini su tre continuano a portarla con scrupolo anche a 36 gradi all'ombra. La mascherina rimane la più elementare forma di riparo nella notte della pandemia: un rifugio a portata di mano, tascabile, sempre pronta all’uso, uno scudo e un fortino per difendersi dall’assedio del virus e dallo spettro dell’ignoto che ha seminato al suo passaggio e che continua a seminare, come la misteriosa e inquietante variante Delta. La mascherina è stata il primo squillo di tromba all’apparizione del Covid: non se ne trovavano più nelle farmacie italiane quando ancora sembrava una epidemia esotica destinata ad accomodarsi dentro i confini cinesi. Ha dettato uno stile: la moda covidica, fatta di camici, guanti, tute, inizia dalla protezione del viso, declinata in colori e loghi per farla digerire e farne un oggetto identitario. È diventata una bandiera politica, un simbolo di appartenenza che ha toccato l’apice durante la campagna presidenziale americana: non indossarla rivelava una scelta di campo, un’adesione al fronte trumpiano. Sulla mascherina si è giocata la prima partita tra salute e libertà, tra le ragioni della prudenza contro un nemico invisibile e il desiderio di vivere senza obblighi. Un anno e mezzo è un tempo lunghissimo, dentro il quale mettono radici convinzioni e abitudini. Bel paradosso: all’inizio detestata come potremmo detestare le manette o una catena, la mascherina è entrata nel perimetro della quotidianità come la cintura in auto o il casco in moto. Si è fatta largo nelle case, sul mobile all’ingresso tra le chiavi, gli occhiali e gli altri oggetti da prendere prima di uscire; è entrata nella lista della spesa con l’Amuchina, tra saponi, detersivi e carta igienica, oppure nei kit aziendali consegnati ai dipendenti con il badge, il pc o il caschetto. Non averla ci toglie sicurezze. Senza che ce ne accorgessimo, la mascherina per molti è diventata la nuova coperta di Linus: un pezzo di stoffa con cui possiamo affrontare un mondo che sembrava non ci volesse più, un feticcio che ci aiuta a tenere a bada l’ansia, la paura dell’ignoto, la sensazione di disorientamento indotta da questo tempo irreale. Proprio come accade al personaggio dei Peanuts, la coperta-mascherina rassicura, primo e ultimo scudo quando ci avviciniamo troppo a qualcuno o quando la stanza si affolla: con un gesto ormai automatico, come calzare le scarpe prima di uscire di casa, con l’alluce e l’indice stringiamo la mascherina sul naso come se alzassimo un ponte levatoio o indossassimo il mantello di Superman. Anche quando l’obbligo di indossarla all’aperto cadrà, c’è da scommettere che in tasca, al gomito o in borsetta, per un po’ la nostra coperta di Linus sarà sempre a portata.

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Desidero scriverle un breve appunto relativo alla sua ultima spunta blu, che mi permetto di correggere a penna rossa. Dopo circa un anno e mezzo di pandemia, dopo che le nostre vite sono state assorbite da informazioni relative al covid, mi permetto di dare per assodato che le mascherine (quantomeno quelle di comunità e le cosiddette chirurgiche, che ricoprono la quasi totalità dei dispositivi di protezione che ci troviamo a portare) abbiano principalmente la funzione di proteggere non tanto noi stessi, ma le persone con cui ci troviamo a relazionarci o incontriamo nel nostro attraversare gli spazi pubblici. Indossare la mascherina (quantomeno in uno spazio chiuso e in un contesto generale che non garantiva una copertura vaccinale a gran parte della popolazione), non è dal mio punto di vista frutto di una visione paranoide e ipocondriaca della pandemia, ma un gesto di solidarietà nei confronti dei soggetti più deboli che potrebbero subire complicazioni dopo aver contratto il SARS COV-2. Spesso sono rimasto deluso dal modo in cui la carta stampata e i siti d'informazione hanno trattato la questione in maniera, dal mio punto di vista, semplicistica e banale. Penso sia stata una grande occasione di crescita e consapevolezza che abbiamo sprecato inseguendo l'umoralità e il desiderio di click. Aggiungo il suo editoriale alla lista delle occasioni sprecate.
Franco Butera

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Gentile Franco,
la ringrazio per il suo commento e per aver speso un po' del suo tempo a leggere il mio. Mi permetto anch'io alcune considerazioni in risposta alle sue pacate critiche. Il GdV per sei mesi, tra autunno e primavera, ha pubblicato tutti i giorni, nelle pagine dedicate alla pandemia, testatine ad hoc per sostenere gli appelli che arrivavano dal mondo sanitario e dalle istituzioni per avere cura di indossare sempre la mascherina. Non tutti gli organi di informazione hanno promosso una campagna di sensibilizzazione così netta e precisa: altri hanno persino soffiato sul fuoco di negazionisti e No mask. C'era anche uno slogan, "Aiutati, aiutaci", che descriveva bene l'ambivalenza di cui stiamo parlando da diversi punti di vista io e lei: proteggere se stessi e proteggere gli altri. Questa ambivalenza, a mio avviso, esiste ancora e non è determinata certo da paranoie o ipocondrie: io sono tra coloro che continua a indossarla e le garantisco che non sono né paranoico né ipocondriaco. Che la leva sia egoistica o altruistica, in fondo poco importa; conta che la mascherina venga utilizzata dove e quando serve. Che gli italiani, popolo a volte allergico alle norme imposte dall'alto, continuino in larghissima maggioranza a indossare la mascherina anche con l'afa di questi giorni, è un dato molto interessante. Con il mio testo ho provato solo a dare una mia interpretazione a questa adesione alle norme igienico-sanitarie nonostante l'imminente eliminazione dell'obbligo all'aperto. Lei ritiene che questo fenomeno dipenda da afflati solidaristici: probabilmente ha ragione, anche se mi permetto di coltivare qualche dubbio conoscendo l'impronta individualista degli italiani, non tutti ma molti sì. E qualche dubbio mi permetto di conservarlo anche a proposito delle occasioni perse: confrontarsi su idee e posizioni diverse non è mai un'occasione persa.

 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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