"Sicurezza è avere un cassetto pieno di calze di lana" (Linus)
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Da piccolo avevo un incubo ricorrente: uscivo di casa per andare a scuola e scoprivo di non avere le scarpe; provavo imbarazzo e vergogna, mi sentivo nudo e indifeso, il sogno diventava un’agonia nell’affannosa ricerca di un paio di scarpe che placassero quella sensazione di disagio profondo. Negli ultimi sedici mesi mi è invece capitato di fare un altro sogno ridondante, sempre uguale: trovarmi in luoghi affollati senza la mascherina. Nonostante il bombardamento politico e mediatico sulla fine imminente dell’obbligo all’aperto come se fosse il cessate il fuoco di qualche guerra, due vicentini su tre continuano a portarla con scrupolo anche a 36 gradi all'ombra. La mascherina rimane la più elementare forma di riparo nella notte della pandemia: un rifugio a portata di mano, tascabile, sempre pronta all’uso, uno scudo e un fortino per difendersi dall’assedio del virus e dallo spettro dell’ignoto che ha seminato al suo passaggio e che continua a seminare, come la misteriosa e inquietante variante Delta. La mascherina è stata il primo squillo di tromba all’apparizione del Covid: non se ne trovavano più nelle farmacie italiane quando ancora sembrava una epidemia esotica destinata ad accomodarsi dentro i confini cinesi. Ha dettato uno stile: la moda covidica, fatta di camici, guanti, tute, inizia dalla protezione del viso, declinata in colori e loghi per farla digerire e farne un oggetto identitario. È diventata una bandiera politica, un simbolo di appartenenza che ha toccato l’apice durante la campagna presidenziale americana: non indossarla rivelava una scelta di campo, un’adesione al fronte trumpiano. Sulla mascherina si è giocata la prima partita tra salute e libertà, tra le ragioni della prudenza contro un nemico invisibile e il desiderio di vivere senza obblighi. Un anno e mezzo è un tempo lunghissimo, dentro il quale mettono radici convinzioni e abitudini. Bel paradosso: all’inizio detestata come potremmo detestare le manette o una catena, la mascherina è entrata nel perimetro della quotidianità come la cintura in auto o il casco in moto. Si è fatta largo nelle case, sul mobile all’ingresso tra le chiavi, gli occhiali e gli altri oggetti da prendere prima di uscire; è entrata nella lista della spesa con l’Amuchina, tra saponi, detersivi e carta igienica, oppure nei kit aziendali consegnati ai dipendenti con il badge, il pc o il caschetto. Non averla ci toglie sicurezze. Senza che ce ne accorgessimo, la mascherina per molti è diventata la nuova coperta di Linus: un pezzo di stoffa con cui possiamo affrontare un mondo che sembrava non ci volesse più, un feticcio che ci aiuta a tenere a bada l’ansia, la paura dell’ignoto, la sensazione di disorientamento indotta da questo tempo irreale. Proprio come accade al personaggio dei Peanuts, la coperta-mascherina rassicura, primo e ultimo scudo quando ci avviciniamo troppo a qualcuno o quando la stanza si affolla: con un gesto ormai automatico, come calzare le scarpe prima di uscire di casa, con l’alluce e l’indice stringiamo la mascherina sul naso come se alzassimo un ponte levatoio o indossassimo il mantello di Superman. Anche quando l’obbligo di indossarla all’aperto cadrà, c’è da scommettere che in tasca, al gomito o in borsetta, per un po’ la nostra coperta di Linus sarà sempre a portata.
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Desidero scriverle un breve appunto relativo alla sua ultima spunta blu, che mi permetto di correggere a penna rossa. Dopo circa un anno e mezzo di pandemia, dopo che le nostre vite sono state assorbite da informazioni relative al covid, mi permetto di dare per assodato che le mascherine (quantomeno quelle di comunità e le cosiddette chirurgiche, che ricoprono la quasi totalità dei dispositivi di protezione che ci troviamo a portare) abbiano principalmente la funzione di proteggere non tanto noi stessi, ma le persone con cui ci troviamo a relazionarci o incontriamo nel nostro attraversare gli spazi pubblici. Indossare la mascherina (quantomeno in uno spazio chiuso e in un contesto generale che non garantiva una copertura vaccinale a gran parte della popolazione), non è dal mio punto di vista frutto di una visione paranoide e ipocondriaca della pandemia, ma un gesto di solidarietà nei confronti dei soggetti più deboli che potrebbero subire complicazioni dopo aver contratto il SARS COV-2. Spesso sono rimasto deluso dal modo in cui la carta stampata e i siti d'informazione hanno trattato la questione in maniera, dal mio punto di vista, semplicistica e banale. Penso sia stata una grande occasione di crescita e consapevolezza che abbiamo sprecato inseguendo l'umoralità e il desiderio di click. Aggiungo il suo editoriale alla lista delle occasioni sprecate.
Franco Butera
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Gentile Franco,
la ringrazio per il suo commento e per aver speso un po' del suo tempo a leggere il mio. Mi permetto anch'io alcune considerazioni in risposta alle sue pacate critiche. Il GdV per sei mesi, tra autunno e primavera, ha pubblicato tutti i giorni, nelle pagine dedicate alla pandemia, testatine ad hoc per sostenere gli appelli che arrivavano dal mondo sanitario e dalle istituzioni per avere cura di indossare sempre la mascherina. Non tutti gli organi di informazione hanno promosso una campagna di sensibilizzazione così netta e precisa: altri hanno persino soffiato sul fuoco di negazionisti e No mask. C'era anche uno slogan, "Aiutati, aiutaci", che descriveva bene l'ambivalenza di cui stiamo parlando da diversi punti di vista io e lei: proteggere se stessi e proteggere gli altri. Questa ambivalenza, a mio avviso, esiste ancora e non è determinata certo da paranoie o ipocondrie: io sono tra coloro che continua a indossarla e le garantisco che non sono né paranoico né ipocondriaco. Che la leva sia egoistica o altruistica, in fondo poco importa; conta che la mascherina venga utilizzata dove e quando serve. Che gli italiani, popolo a volte allergico alle norme imposte dall'alto, continuino in larghissima maggioranza a indossare la mascherina anche con l'afa di questi giorni, è un dato molto interessante. Con il mio testo ho provato solo a dare una mia interpretazione a questa adesione alle norme igienico-sanitarie nonostante l'imminente eliminazione dell'obbligo all'aperto. Lei ritiene che questo fenomeno dipenda da afflati solidaristici: probabilmente ha ragione, anche se mi permetto di coltivare qualche dubbio conoscendo l'impronta individualista degli italiani, non tutti ma molti sì. E qualche dubbio mi permetto di conservarlo anche a proposito delle occasioni perse: confrontarsi su idee e posizioni diverse non è mai un'occasione persa.