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La spunta blu

I sogni dei ragazzi con il condizionale d'obbligo

Una scena dal film "Alice in Wonderland"
Una scena dal film "Alice in Wonderland"
Una scena dal film "Alice in Wonderland"
Una scena dal film "Alice in Wonderland"

«Allora, ragioniere, che fa? Batti?» (dal film “Fantozzi”)
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«Almeno hanno imparato a usare il condizionale e il congiuntivo». Le parole cadono sul marciapiede davanti alla scuola mischiandosi con le foglie degli ippocastani. Sono quasi le due, la campanella suona per un paio di secondi, le auto sono parcheggiate anche sui muri mentre file di zaini su spalle ingobbite scappano in tutte le direzioni sotto un sole incerto, il sole di fine settembre. Abbiamo appena finito di parlare delle solite cose. Solite per questi due anni: virus, vaccini, tamponi, didattica a distanza, protocolli, regole, circolari, annunci, speranze. Siamo schierati come guardie del corpo, con gli occhiali da sole, le giacche e le camicie da ufficio, con le maniche arrotolate da pausa pranzo e le mani incrociate davanti, come se fossimo calciatori in barriera in attesa del calcio di punizione. Mentre ci infilavamo nel senso unico dei nuovi luoghi comuni pandemici, qualcuno ha appoggiato lì qualcosa di diverso: «Ci avete fatto caso che usiamo sempre più spesso il condizionale e il congiuntivo? Noi tutti, ma loro in particolare. Non è strano?». Loro sarebbero i nostri figli, ragazzini delle medie. Noi, invece, siamo i genitori. Bel paradosso, questa cosa del congiuntivo e del condizionale: ci si lagna sempre che gli italiani non sanno che farsene, ora sembra strano che abbondiamo? La mia prof delle medie avrebbe detto che la situazione è grammatica. Il fatto è che alla loro età vivevamo esistenze all'indicativo presente, futuro semplice, passato prossimo. Non sapevamo nemmeno cosa fosse un periodo ipotetico: l'avremo imparato, scottandoci le dita, al liceo, con la consecutio temporum, l’aoristo e l’ottativo. Il futuro era una palla di cannone accesa, una linea più o meno curva, più o meno retta, di cui non vedevamo la fine, ma che sapevamo avremmo percorso con il sole in fronte, noi ragazzi nati negli anni Settanta e cresciuti negli anni Ottanta. Il virus ha rimodellato la forma del tempo e dello spazio, come le pillole ingoiate da Alice nel Paese delle meraviglie, modificando il nostro rapporto con la realtà, la nostra percezione del nostro stare al mondo. La pandemia ha fatto a pezzi quelle linee, che ora appaiono come segmenti, frammenti di futuro che hanno il respiro di giorni o settimane, poi si vedrà, chi può dire cosa accadrà? Se qualcuno avesse chiesto a un tredicenne del 1989 cosa avrebbe fatto da settembre a maggio, una domanda surreale in tempo di pace, si sarebbe sentito rispondere con ovvia sicurezza: «Andrò a scuola, ovviamente». Alla stessa domanda un tredicenne del 2021, tempo di guerra, risponderebbe vago e incerto: «Se non ci dovessero essere contagi nella mia classe dovrei andare a scuola, ma non si sa mai, vedremo cosa succederà». Ed è così per lo sport o per il tempo libero: è tutto un "qualora", "nel caso in cui", "sempre che", "chissà". Si dice che il condizionale sia il modo dei sognatori, mentre il congiuntivo sia il modo dei nostalgici. Ecco, nelle parole dei millennials passati attraverso la didattica a distanza e i decreti della pandemia scorre una miscela di sogni e nostalgia: sogni per un futuro diverso da questa prospettiva breve, con il fiato corto, schiacciata troppo vicino al presente, dove galleggiano esistenze appese al qui e ora; nostalgia per qualcosa che hanno vissuto per troppo poco tempo e desiderano ritrovare. È come se alla corsa di chi fino all'altro ieri avrebbe attraversato l'adolescenza con il piede schiacciato sull'acceleratore, fosse stato tirato il freno a mano della prudenza: non si sbilanciano sul futuro semplicemente perché non dipende da loro. Non si fidano più nemmeno dei loro sogni, inamidati in una bolla di formule che mettono le mani avanti, attenuano, attutiscono, limitano. Ma il condizionale ce lo siamo inventati per esprimere dubbi, perplessità, incertezze, per essere prudenti, al limite saggi, quasi sempre scaramantici: tutte cose da adulti, non da ragazzini. «Da grande farò il pompiere», gridava Grisù remando contro l'evidenza della sua natura di drago, portato ad appiccare più che a spegnere gli incendi. Un Grisù all'epoca del covid abbasserebbe la voce, per dire: «Da grande mi piacerebbe fare il pompiere, sempre che riesca a completare il ciclo di studi, ammesso e non concesso che possa allenarmi in palestra o almeno in piscina». Dovremmo batterci tutti per allungare quei segmenti disordinati che sono i possibili scenari davanti agli occhi dei nostri ragazzi: sono il loro e il nostro futuro, serve più indicativo e meno condizionale. Sono passate meno di due settimane dalla prima campanella, eppure i giovani sono già stati declassati dal rango di “priorità assoluta” alla categoria “va tutto bene madama la marchesa”, come va dicendo il ministro Bianchi, che giura “mai più dad” senza sapere, o fingendo di non sapere, che stanno crescendo esponenzialmente le classi messe in quarantena e quindi in dad. Anche quest’anno sarà per l’anno prossimo, dunque?
La campanella intanto ha smesso di suonare, ci stiamo già sbracciando per farci vedere nel caos calmo delle due meno un quarto. Le foglie di ippocastano si sbriciolano sotto le suole. Ci salutiamo e ci consoliamo su quella frase: «Vabbè, almeno hanno imparato a usare il condizionale e il congiuntivo». Niente di male, in effetti. Per domani, però, quando saranno grandi. Oggi facciamoli sognare al futuro semplice, che è il tempo di chi ha tutta la vita davanti. «La mia vita - scrisse il filosofo danese Søren Kierkegaard - è purtroppo fatta al congiuntivo: fa', o mio Dio, ch'io abbia una forza indicativa». 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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