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La spunta blu

I lavori che faranno i nostri figli (e forse anche noi)

Una scena dal film "Il diritto di contare"
Una scena dal film "Il diritto di contare"
Una scena dal film "Il diritto di contare"
Una scena dal film "Il diritto di contare"

"Mi servono numeri che ancora non esistono" (dal film "Il diritto di contare")

Si dice che un giorno, intervistato a proposito delle politiche per l’occupazione, George McGovern, lo sfidante alla Casa bianca sconfitto (e spiato, do you remember Watergate?) da Richard Nixon, abbia risposto così ai cronisti: «Più lungo il titolo, meno importante il lavoro». Eravamo all’alba degli anni Settanta, dentro la società solida del Novecento, la rivoluzione digitale era ancora di là da venire, anche se si affacciavano i primi calcolatori e i primi sistemi di automazione. I lavori erano ancora di una parola sola: operaio, meccanico, idraulico, falegname, giornalista. Chissà cosa direbbe mezzo secolo dopo il buon McGovern leggendo il rapporto “Professioni 2030: il futuro delle competenze in Italia” diffuso nei giorni scorsi. Si tratta di una ricerca curata da Ernst & Young, Pearson e Manpower che dipinge lo scenario delle professioni più ricercate nei prossimi dieci anni: i lavori che faranno i nostri figli e forse anche noi. Diciamo subito che i mestieri a rischio declino sono proprio quelli che piacevano a McGovern: una o due parole, titolo breve. Con qualche eccezione, ovvio: resisteranno notaio, avvocato, commercialista, dentista, cuoco. Vanno forte e andranno ancora più forte, invece, cose come: progettisti di applicazioni web; specialisti in reti e comunicazioni informatiche; specialisti nella commercializzazione di tecnologie dell’informazione; tecnici gestori di base di dati; tecnici di gestori di reti e di sistemi telematici. La tentazione sarebbe di fare una sintesi spannometrica della ricerca: il lavoratore del futuro dovrà progettare app per cancellare a colpi di clic i lavoratori del passato. Se così fosse, dovremmo correre tutti a iscriverci a corsi per ingegneri elettronici e informatici. A occhio, però, le cose potrebbero essere più complesse di come sembrano. E la parola che potrebbe aiutarci a capirne qualcosa di più è proprio “complessità”. La transizione tecnologica è stata certamente accelerata dalla crisi innescata dalla pandemia: ce ne siamo accorti tutti che non avremmo lavorato, studiato, giocato, parlato con parenti, amici e colleghi senza strumenti di comunicazione digitale. E dunque se volete andare sul sicuro, portate a casa un diploma tecnico, come suggerito anche dal premier Mario Draghi nel suo discorso al Senato. Proprio Draghi, però, ha avvertito: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”. Il rapporto dice anche questo: cambiare, mettersi in gioco, reinventarsi, rigenerarsi. È vero, la crisi di questo ultimo anno ha portato in primo piano l’urgenza della tecnologia, ma ha fatto sentire a tutti un vuoto enorme: le relazioni, la socialità, l’umanità. Come lo riempiamo quel vuoto? Solo con la tecnologia? Una delle chiavi per il lavoro che verrà è dunque l’ibridazione: dalla miscela di competenze tecniche e competenze sociali e relazionali, sbocceranno i tecno-umanisti, le figure professionali di domani. Penso al mio di lavoro, il giornalista, e penso che no, farlo come si è sempre fatto, non basterà: forse sarebbe romantico, ma sarebbe anche fuori mercato. Non basta raccogliere le notizie e scriverle, bisogna raccontarle nelle forme di narrazione contemporanee e queste forme di narrazione richiedono competenze tecnologiche, non soltanto umanistiche. Forse dovremmo iniziare a smussare qualche spigolo, a levare steccati, a sfumare molti dei confini che ancora oggi resistono nella scuola italiana tra percorsi di studi tecnici e umanistici: finché ce ne stiamo ognuno sulla sua torre d'avorio non faremo dialogare competenze diverse che, se mescolate, daranno vita a nuove visioni, a nuovi modi di fare le cose. Forse è il caso di ibridare già a scuola. Non so dire perché, ma leggendo il rapporto sul lavoro che verrà mi sono tornate in mente alcune scene del film “Il diritto di contare”, dove il tema dominante è la discriminazione delle donne e in particolare delle donne di colore, ma in filigrana ci si può leggere qualcosa che valeva negli anni Sessanta come vale oggi: “Mi servono numeri che ancora non esistono”, dice il personaggio di Kevin Costner, che poi aggiunge: “Quello che ti chiedo di fare è di guardare oltre i numeri, di guardare intorno, di guardare attraverso, di dare risposte a domande che ancora non sappiamo formulare. Senza, resteremo qui, non andremo da nessuna parte, non voleremo nello spazio, non andremo sulla luna”. Da questa storia non possiamo pensare di uscire tornando esattamente al punto in cui ci trovavamo prima che tutto iniziasse. Primo perché già dove ci trovavamo molte cose non funzionavano e il virus non ha fatto altro che scavare dove ha trovato il terreno più morbido, dove c’erano debolezze e fragilità. Secondo perché qualcosa è già cambiato: molto, per la verità. Terzo perché è il momento di immaginare, di guardare oltre, attorno, al di là. In “Una certa idea di mondo” Alessandro Baricco ha raccontato questa storia, che poi ha ri-raccontato in questi mesi di pandemia: «C’è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo. Monta in sella. Poi chiede sprezzante al maestro d'equitazione se ci sono delle regole. Ed ecco cosa risponde lui: «Prima regola, prudenza. Seconda, audacia». Tutto qui: prudenza, per non cadere da cavallo. E audacia, per andare dove non siamo ancora andati.
gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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