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La spunta blu

Guardare una gara di nuoto ai tempi del virus: in auto, in un parcheggio, come al drive-in

Una scena dal film "Grease"
Una scena dal film "Grease"
Una scena dal film "Grease"
Una scena dal film "Grease"

La spunta blu ha compiuto un anno. Il primo post è apparso un paio di giorni prima dello scorso Natale: era dedicato alla notte, rapita dai decreti che avevano imposto il coprifuoco e chiuso i luoghi dello svago. Esistenze schiacciate sulla strada tra casa e lavoro, con poche deviazioni verso supermercati e farmacie, da vivere di giorno, alla luce del sole: il nostro mondo ci stava scivolando come sabbia tra le dita. Il blog era nato come un'antenna da issare nella bufera per captare segnali, stati d'animo, sentimenti e sensazioni che ci stavano attraversando e trasformando impetuosamente, alla velocità della luce, svuotandoci di quello che eravamo e riempiendoci di quello che saremo. Non lo avrei creduto, prima, ma in poco tempo “La spunta blu” è diventata l'esperienza più intesa e coinvolgente della mia carriera e di questo sono debitore a voi lettrici e lettori per le decine di lettere, critiche, proposte, commenti, semplici ringraziamenti: non posso che dirvi grazie, di cuore. Un anno dopo non so ancora dirvi che direzione prenderà il blog, di sicuro nel 2022 ci saranno alcune novità: ne parleremo. Molti mi hanno chiesto se dal blog prima o poi sboccerà un libro. Diciamo che ci sto lavorando, mescolando alcuni dei temi più frequentati, soprattutto il rapporto tra padri e madri e figli e figlie. Stay tuned, come dicono quelli bravi. Nell'attesa, appoggio qui sotto il racconto di un pezzo della nostra nuova realtà. È il mio piccolo augurio per un nuovo anno da vivere a occhi aperti e senza paura.

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«Le estati volano sempre, gli inverni camminano» (Charlie Brown, Peanuts)

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«Chiuso pure il bar, tra parentesi». Non so come, ma era molto circolata questa teoria svalvolata: che la tribuna della piscina fosse chiusa, come da protocollo Covid, ma che fosse possibile assistere alle gare dalla vetrata del bar, come se il bar fosse impermeabile al virus. Travolti da un ottimismo sfrenato, inedito e insensato in questi tempi cauti e prudenti, alcuni di noi si erano presentati con un paio d’ore di anticipo per occupare i tavolini affacciati sulla piscina. Con “noi” intendo noi genitori accompagnatori, noi che non facciamo sport, ma lo guardiamo fare da altri. E con “altri” intendo i nostri figli. In realtà li guardavamo fino a due anni fa. Poi, tra gli effetti collaterali della pandemia, c'è stato anche questo, piccolo e inessenziale rispetto ai milioni di guai che affrontiamo tutti. E però c'è che non ce li fanno più vedere nuotare, i nostri figli. Così li accompagniamo, anche in queste lunghe trasferte, ma restiamo fuori ad aspettarli, immaginandoli nuotare, calcolando i tempi dal marciapiedi, con un po' di rassegnazione e di ansia se per caso le cose vanno per le lunghe. Tra i genitori che si sono presentati per primi, forse proprio il primo, c'è Traparentesi, padre a sua volta di una piccola nuotatrice, che incontro solo in occasione di queste trasferte bibliche. Quando arrivo pure io, appena in tempo per il raduno, ma proprio per un soffio, mentre saluto mia figlia con la solita goffaggine dovuta alle mascherine (riusciamo ogni volta a baciarci come gli amanti del quadro di Magritte), mi viene incontro con l’aria del buttafuori di una discoteca, sbracciandosi per impedirmi di fare un passo in più: «Bar chiuso, si resta fuori». Fuori c’è il vuoto: nebbia, freddo, la brina sugli scivoli della piscina estiva (poche altre cose mi mettono sulle spalle un cappotto di malinconia come gli acquapark d'inverno), cani che abbaiano dietro le siepi perfettamente potate di villette a schiera, un palasport con tanto calcestruzzo e poca luce, un campo da calcio con la pista di atletica intorno, campi da tennis e da padel da cui arrivano i “flip” e i “flap” delle palline colpite dalle racchette. Abbiamo attraversato la pianura veneta per trovarci in questa mezza periferia. Le piscine si assomigliano tutte, su al Nord. Sono capannoni prefabbricati costruiti ai bordi delle città, accanto ad altri impianti sportivi, dentro quartieri residenziali dove le case costano un po’ di più perché le agenzie immobiliari scrivono negli annunci parole ispirate dalla vicinanza con luoghi dove si praticano attività salutari per persone sane. I parcheggi sono sempre troppo stretti e lontani, così davanti all’ingresso di queste fabbriche riempite di acqua e cloro è tutto uno sgasare di auto che scaricano o attendono ragazzini sudati e bagnati. Ti aspetteresti che le strade indossassero nomi ispirati ai grandi eroi dello sport, invece spesso vengono battezzate con concetti astratti (concordia, pace, amicizia, unità) o addirittura con accostamenti suggeriti da confuse leggi del contrappasso: a Vicenza una piscina sta in via Cavalieri di Vittorio Veneto (truppe di terra, al limite attrezzate per guadare fiumi), l’altra in via Arturo Ferrarin (leggenda dell’aria, più che dell’acqua). Fa freddo, battiamo i piedi per scaldarci. Da dentro filtra il ritmo delle canzoni sparate dagli altoparlanti. Dev’essere iniziato il riscaldamento: una danza di corpi pallidi in costume, cuffia e occhialini che si tuffano uno dopo l’altro, come in una coreografia del Cirque du soleil. Qualcuno prova a shazammare mentre altri giocano a indovinare. Alla fine vince una tizia che non trova tregua tra la mascherina tirata fino alle ciglia e gli occhiali inesorabilmente appannati: «Green Light, Lorde», esulta agitandosi come se dovesse roteare un hula hop. Verde è diventata pure la luce prodotta mescolando la nebbia con la fila di lampioni e le luminarie intermittenti che spiovono da un balcone. Da qualche minuto Traparentesi osserva nervosamente un oblò che si apre sulla parete a un paio di metri dal marciapiede. «Ti vuoi arrampicare?», chiedo io. «Ci stavo pensando, ma se scivolo mi sfracello e poi, tra parentesi, il vetro è annebbiato». Una voce incontrollata attraversa questo manipolo di padri e madri infreddoliti e demoralizzati: «Danno la diretta su Facebook». È un segnale: estraiamo dalle tasche dei giacconi una mano, impugniamo i telefoni, ci colleghiamo e sì, c’è la diretta e sì, era di Lorde la canzone. Ci viene il mal di mare: la vasca è una tonnara, i nostri figli sono indistinguibili in mezzo a spruzzi e schizzi. L’inquadratura è fissa, un po’ sembra un film sperimentale degli anni Sessanta, un po' la telecamera di sorveglianza di una banca in cui stanno per fare una rapina. Siamo ingobbiti, rattrappiti, infreddoliti, non si vede un bar nel raggio di dieci chilometri, non sappiamo che autonomia avremo in queste condizioni, così un po' tutti decidiamo di tornare alle auto per guardare le gare. Traparentesi mi invita nel suo mini van: “Si sta più comodi, ho pure l'iPad, così vediamo meglio”. Non saprei, rispondo lasciando intendere con una smorfia, la smorfia che calzo da mesi per esprimere senza dire nulla i miei dubbi sul rispetto delle misure anti-virus. Chissà come, tutti capiscono, anche Traparentesi capisce: “Tranquillo, ho fatto il booster, teniamoci la mascherina per sicurezza, per il resto siamo in una botte di ferro”. Il booster l'ho fatto pure io, così mi lascio convincere. Ci colleghiamo in tempo per la prima batteria dei cento stile libero. Mi guardo intorno, sembra di stare in una specie di drive-in: siamo tutti dentro le nostre auto, in un parcheggio, a guardare la stessa cosa, una gara di nuoto che si sta svolgendo a non più di trenta metri di distanza, oltre quel muro, al di là di quelle finestre. Che faccia farebbe un alieno che dovesse atterrare ora, in questo istante, sulla Terra scegliendo questo parcheggio per planare con la sua navicella? Penserebbe: guarda come sono evoluti questi umani che si servono di schermi piccoli, a volte piccolissimi, per dilettarsi con lo sport preferito dei loro figli? Oppure penserebbe: guarda come stanno messi questi, andiamocene subito, siamo rimasti pure troppo? Io e Traparentesi, come in un dramma di Ionesco, scopriamo che le nostre figlie faranno la stessa gara, i 400 misti. Ora, dovete sapere che, a differenza del calcio o di altri sport di squadra, nel nuoto vige un'etichetta che noi genitori ci vuole tutti molto educati: controlliamo le emozioni, non tifiamo mai troppo, siamo comprensivi con gli sconfitti ed elogiamo gli avversari in un esercizio di buone maniere fatto di sorrisi, mezzi inchini, complimenti, mimiche facciali per contenere gioie o amarezze. Sembra di stare in Giappone, ecco. Così passiamo qualche minuto, prima della gara, a dirci cose decubertiane: “La tua è molto migliorata nell'ultimo anno”, “Mai come la tua, ha dei tempi notevoli”, “Sì, ma soffre un po' il clima partita”, “A me sembra molto maturata, tra parentesi”. La Bmw accanto a noi ha i finestrini annebbiati e sussulta: dentro una madre invasata, sola e quindi libera di dare sfogo a tifo ed emozioni, sta saltellando sul sedile e urla cose indecifrabili che se fosse in pubblico correrebbe a nascondersi in bagno per la vergogna. “Questa situazione – dice Traparentesi – mi ricorda quando si andava in camporella da morosi”. Noi si andava a Monte Berico, penso ma non dico, con la Punto blu di mia madre, il motore acceso per il freddo, la paura di essere visti, il cuore in gola: sacro e profano, secondo tradizione. “Che poi, tra parentesi, con il sesso funziona come con la legge della domanda e dell'offerta”. Gli occhi mi si fanno sottili, due fessure appena, mentre lo fisso inebetito. “Mi spiego: meno possibilità hai e più lo fai. Come il prezzo delle merci: meno ce n'è, più costa. Quando non avevamo una casa, ogni momento era buono. Poi quando la casa ce l'abbiamo avuta, l'abbiamo fatto sempre meno, sempre meno, fino a prendere appuntamento una volta al mese”. Ci devo riflettere, ma forse non ha tutti i torti. “Sono in prechiamata”, esclamo indicando un punto in alto a destra sullo schermo. D'istinto mi viene da sbracciarmi per salutare mia figlia. Non so bene perché, ma in piscina si salutava sempre molto. Ovunque vi giravate, c'era sempre qualcuno che si sbracciava affannato, agitando la mano e invocando nomi ad alta voce. C'erano ottime ragioni per farlo. I ragazzini entravano negli spogliatoi senza sapere dove sarebbero seduti genitori e nonni, che a loro volta non riuscivano a distinguere i loro figli e nipoti. Dalle gradinate sembravano tutti uguali: costumi, cuffie, occhialini, accappatoi, e chi li riconosceva? E quindi il primo obiettivo era dimenarsi molto per farsi vedere: il premio era riconoscersi da lontano e salutarsi. Ci si agitava come un difensore per chiamare il fuorigioco. Ma qui, dentro questo abitacolo, non c'è nessuno da salutare, nessun fuorigioco da chiamare. Questo è il Nad: il nuoto a distanza. Sullo schermo le vediamo schierate sui blocchi: sciolgono le braccia, aggiustano gli occhialini, stringono la cuffia. Ora si piegano, contraggono i muscoli, abbassano la testa. Sibila una sirena, si tuffano, spariscono nella pancia della vasca, pochi attimi e poi mulinano le prime bracciate. Le nostre figlie sono vicine, troppo vicine, non capiamo chi sta davanti a chi. Fa caldo. Allento la cerniera del giaccone. Prima virata: mia figlia gira in testa. Lui dice “brava”, ma si capisce che non ci crede. “Brava anche la tua, però”, rispondo io, stando bene attento a dosare fair play e scaramanzia. Chiude la frazione a farfalla con un buon vantaggio, ora deve resistere a dorso. L'altra rimonta e Traparentesi molla gli ormeggi, iniziando a tifare spudoratamente. Io mi tengo ancora un po', il dorso è uno strazio, non finisce mai, perdo il conto delle vasche, vedo l'allenatore andare avanti e indietro mostrando la direzione, come se si potesse mai sbagliare strada. Finalmente rana, mo' tifo pure io, però. La gara si fa intensa, bellissima, saltiamo sui sedili come bambini, sudiamo come bambini. Il mini van oscilla, noi siamo paonazzi, io ripenso a quando me la misero in braccio la prima volta, appena nata e mi portarono a farle il bagnetto e lei smise di piangere al contatto con l'acqua e l'ostetrica vaticinò: “Farà nuoto”. E così è stato, come in certe profezie che si autoavverano. Anche rana è andata, ora rimane solo stile libero. Mi sembra stanca, mi scappa un “non mollare”, mentre Traparentesi urla alla sua “attacca, ora o mai più”. Mancano cinquanta metri, ce ne saranno un paio di distanza tra l'una e l'altra, mia figlia sembra resistere, anzi, accelera quasi, io ho le mani tra i capelli, le dico “respira, respira”, ma lei niente, tiene la testa sotto acqua, in apnea lei, in apnea io, ultima vasca e... buio, non si vede più nulla. È saltata la diretta, come se fossimo su Dazn. Traparentesi sbarra gli occhi, dà un pugno al cruscotto, impreca, poi si volta di scatto e si infila tra i sedili, cercando qualcosa dietro. Io sono stravolto dalle emozioni: fa caldo e decido di togliermi giacca e felpa. Mentre farfuglia cose incomprensibili su un pc portatile, “dove cazzo l'ho messo”, mi ritrovo il suo fondoschiena a un palmo dal naso. È un attimo, appena il tempo di fare due più due: un'auto con i vetri appannati che dondola in un parcheggio di periferia con il favore delle tenebre, “qualcuno penserà che qui una coppietta ci sta dando dentro” abbozzo io anche per tagliare l'aria dopo la tensione della gara, quando vedo rimbalzare sul parabrezza il flash di un lampeggiante blu e a ruota il fascio di luce bianca di una torcia. “Aprite”, sento ordinare da fuori. “Chi cazzo è?”, chiede un sempre più stravolto Traparentesi. Apro la portiera: un agente ci punta la torcia in faccia, dietro di lui altri genitori ci guardano allibiti, io ho l'aria sbattuta, i capelli impazziti, sono rosso pomodoro, in maglietta, lui sempre incastrato tra i sedili, il suo fondoschiena lo precede. “La polizia – sibilo – e senza parentesi”. Tra poco è Natale, penso a mia figlia, non so nemmeno se ha vinto, vorrei abbracciarla, invece sono qui dentro, seduto sul sedile di un mini van con i vetri appannati, che stava dondolando in un parcheggio di periferia nell'oscurità, anch'io avrei pensato quello che hanno pensato tutti, al punto da chiamare la polizia: atti osceni in luogo pubblico. D'istinto alzo le mani, vorrei dire “mi arrendo”, ma mi esce solo un: “Possiamo spiegare, non è come sembra”.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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