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La spunta blu

Galleggiare in zona bianca

Sam Taylor Wood, "Self Portrait Suspended III"
Sam Taylor Wood, "Self Portrait Suspended III"
Sam Taylor Wood, "Self Portrait Suspended III"
Sam Taylor Wood, "Self Portrait Suspended III"

«Sei il colore che non ho e non catturerò, ma se ci fosse un metodo vorrei che fosse il mio» (Afterhours, “Bianca”)
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Se c'è una cosa che ho imparato dall'infortunio alla spalla è che da una malattia il corpo non guarisce in una volta sola, tutto insieme. Abbiamo velocità diverse, anche dentro di noi. Durante una convalescenza non tutti i muscoli si comportano nello stesso modo sulla via della guarigione: ci sono muscoli che si afflosciano cadendo in letargo e ci sono muscoli iperattivi che lavorano il doppio, alcuni si contraggono mettendosi sulla difensiva, altri vanno all'attacco anche quando non è il loro turno fino a infiammarsi. In questa lunga coda della convalescenza collettiva dopo un anno e mezzo di pandemia, i muscoli del mondo si stanno muovendo come i muscoli che guidano la mia spalla lussata. C'è chi continua a restare in trincea, diffidente, infastidito dalla riapertura improvvisa, impaurito da possibili false ripartenze e ricadute. C'è chi divora ogni grammo di libertà ritrovata, come se dovesse rifarsi di ogni momento perduto durante l'autunno e l'inverno. C'è chi avanza a piccoli passi, cercando riparo dietro brandelli di muri, come soldati spediti in avanscoperta nella città appena conquistata. E c'è chi fa un gran baccano, scaricando sul giorno e la notte l'elettricità rabbiosa accumulata sentendosi vittima innocente di misure che percepiva come punizioni per la sola colpa di non avere l'età. La movida molesta o violenta che sta alimentando le cronache di mezza Italia, Vicenza compresa, è un effetto collaterale dei primi giorni in zona bianca: muscoli che si muovono anche quando dovrebbero stare quieti, fino a infiammarsi, mentre altri restano a guardare pigri e infastiditi. E mentre le piazze si animano al crepuscolo, continuano a esserci spazi in cui resistono regole severe. Al lavoro, ad esempio. Distanziamento, pannelli divisori, smart working: negli uffici non è tornato tutto come prima, ancora. Pensate alle mascherine, al rigore con cui la portate di giorno, finché lavorate, salvo poi lasciarla penzolare da un orecchio o da un gomito mezz'ora dopo che avete timbrato l'uscita, al bar giù all'angolo per l'aperitivo. In zona bianca si fa un po' quel che si vuole, anche se gli esami di terza media o la maturità non hanno gli scritti. Abbiamo velocità diverse, anche dentro la stessa città, anche dentro lo stesso corpo.
Perché poi bianca? Perché proprio zona bianca e non, che so?, zona verde, per restare nell'allegoria semaforica del giallo e del rosso? È stato scelto a caso o c'è dietro un messaggio subliminale di qualche natura? «Il bianco – scrive Vasilij Kandinskij nel saggio “Lo spirituale nell'arte” - è quasi il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi. È un mondo così alto, rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono. Per questo il bianco ci colpisce, come un grande silenzio che ci sembra assoluto. Interiormente lo sentiamo come un non suono, molto simile alle pause musicali che interrompono, brevemente, lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto ma ricco di potenzialità. Il bianco è il suono di un silenzio che, improvvisamente, riusciamo a comprendere». Il bianco come pausa tra un prima e un dopo, un silenzio dopo la tempesta, dopo l'infuriare della battaglia, un tempo che promette futuro: «Ricco di potenzialità», scrive Kandinskij. «Molte cose possono capitare in mezzo al nulla», si sente dire in “Fargo”, il film cult dei fratelli Coen dominato dal bianco dei paesaggi innevati del Minnesota. «A me invece piace vedere la gente, per esempio la gente che guarda le vetrine. Di sabato io faccio su e giù con le scale mobili dei grandi magazzini: quante persone che faticano per stare al passo coi tempi, per essere moderne. Segretarie, bancari, casalinghe: tutta gente normale, sempre presa in giro perché fa una vita non eccitante», confessa Nanni Moretti in “Bianca”: gente normale che fa cose normali, proprio quello che non abbiamo visto per mesi. Quando nel 1968 i Beatles entrano negli studi di Abbey Road sanno che li attende la missione di incidere un disco che arriverà dopo “Sgt. Pepper”, la più sensazionale e lisergica esplosione di colori nei suoni come nella copertina fino ad allora prodotta sul pianeta rock. Il risultato fu un doppio Lp senza titolo e senza copertina, che tutti presero a chiamare “White album”. Affidarono l'artwork all'artista Richard Hamilton, che non fece altro che togliere tutto quello che c'era stato prima: rimase solo una superficie liscia, senza colori, spoglia, nuda. Bianca. Nessuno lo poteva prevedere allora, ma quella che fu consegnata nelle mani dei fan non era solo la copertina di un disco: era una tela bianca. Anni dopo qualcuno si prese la briga di andare a caccia delle prime copie acquistate in quel 1968, scoprendo che molte copertine erano diventate altro: c’erano scritte, oppure disegni, macchie colorate, cruciverba, citazioni di canzoni o poesie, collage di foto. Ne venne ricavata anche una mostra. La zona bianca che stiamo attraversando, chi premendo sull'acceleratore, chi con il freno a mano tirato, chi fermo immobile, chi correndo per due, in fondo questo è: una tela bianca su cui possiamo scrivere pezzi di futuro. È un pezzo di specchio su cui poterci guardare come saremo tra un po': dipende da noi, la direzione che prenderanno le cose, dai muscoli che risveglieremo e da quelli che addomesticheremo. Dopo mesi di impotenza, in balia degli eventi, abbiamo di nuovo il pallino del gioco in mano. Non è poco. Non sprecherei questo momento al riparo della grotta in cui siamo stati rintanati a lungo o rincorrendo affannosamente i fantasmi delle occasioni perdute. In zona bianca galleggiamo nell'aria come gli astronauti nelle navicelle senza gravità: prima o poi torneremo sulla Terra.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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