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La spunta blu

Facebook e il metaverso della solitudine

Una scena dal film "American Beauty"
Una scena dal film "American Beauty"
Una scena dal film "American Beauty"
Una scena dal film "American Beauty"

«A volte ho la sensazione di essere solo al mondo. Altre volte ne sono sicuro» (Charles Bukowski)
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Se fosse un ristorante, non ci metterebbe più piede nessuno: pessime recensioni, menù scadente, servizio approssimativo, clienti maleducati, locale sporco. Invece è Facebook e nonostante una reputazione ogni giorno peggiore, siamo sempre lì, non usciamo mai, sempre connessi, sempre dentro. Non passa giorno senza che da qualche parte nel mondo non si apra una falla sullo scafo del più vasto continente virtuale, primo paese per popolazione: scandali, proteste, odio e incitazione all’odio, razzismo, bullismo, sessismo, maschilismo. Il peggio del peggio. Una cloaca maxima. Eppure.
Eppure non scappiamo, ci lamentiamo ma restiamo, ci indigniamo ma non abbandoniamo. Ormai Mark Zuckerberg è associato ai grandi cattivi dell’immaginario popolare: il suo volto da eterno nerd è una maschera che sta tra Crudelia Demon e Scrooge, associato a manipolazioni spietate, sete di denaro, guerre di potere, crisi delle democrazie, Grande Fratello, da Brexit a Trump, dalle fake news alla post-verità, non c’è inciampo del mondo libero su cui non si allunghi l’ombra del social network. Non solo non lascia, ma addirittura raddoppia, come ha dimostrato anticipando il futuro fantascientifico e distopico del metaverso, parola di rara bruttezza che dovrebbe liofilizzare il futuro che ci attende, una commistione sempre più frequente e stretta tra reale e virtuale, una specie di Matrix che ingoierà le nostre esistenze.
E dunque sembra che siamo tutti risucchiati in una forma di dipendenza, che ci impedisce di smettere. Facebook come la nicotina, più o meno: ci manca soltanto che ci appiccichiamo l’etichetta “nuoce gravemente”. In realtà un po’ tutti ci entriamo con le migliori intenzioni, come i naufraghi aggrappati a una zattera si sbracciano quando avvistano un’isola o una nave, senza farsi troppe domande su chi troveranno a bordo o sulla spiaggia. Quel che accade poi una volta dentro è una reazione a catena che sta segnando questa epoca e che ci riguarda tutti, anche coloro che ne sono usciti o non ci sono entrati mai, le cui storie fanno notizia, proprio perché rare, proprio perché la legge non scritta è che non si può farne a meno, non si può non esserne parte. Perché siamo animali sociali e lì dentro troviamo altri animali come noi per sentirci meno soli. La molecole che crea dipendenza è proprio questa: la solitudine. Facebook si nutre della nostra solitudine e però la amplifica anche, perché più ne prende per alimentarsi e più ne ha bisogno. Quando sotto le notizie postate dai quotidiani leggo raffiche di commenti imbottiti di veleno e odio sotto, non posso non pensare alla solitudine di chi ha scritto parole di cui proverebbe vergogna se venissero lette in pubblico. Facebook è il club dei cuori solitari e Zuckerberg è il direttore di un’orchestra che reclama solitudine per suonare ed essere ascoltata. Anche quando siamo con figli, mariti, mogli, genitori, amici, sempre più spesso ci isoliamo per dare un’occhiata a cosa c’è di nuovo sui social: è un’azione solitaria, che prescrive solitudine per inebriarci con l’illusione della compagnia. 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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