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La spunta blu

Esuli in casa nostra

Una scena del film "Il Postino"
Una scena del film "Il Postino"
Una scena del film "Il Postino"
Una scena del film "Il Postino"

“Quando ci si trova davanti un ostacolo, la linea più breve tra i due punti può essere una linea curva”. (Bertolt Brecht, “Vita di Galileo”)
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C’è qualcosa di simile a un esilio nell’altalena delle mezze libertà prescritte dalla pandemia. Restare a casa è, con le buone o con le cattive, il precetto numero uno per proteggersi e proteggere. Esuli in casa nostra, dunque. C’è di peggio? Sì, certo. Eppure è come se questa vita limitata, immersa nei protocolli anti-covid, nelle autocertificazioni, nel coprifuoco, nelle mascherine, rendesse meno familiari i luoghi che chiamiamo (chiamavamo) “casa”. Questa impossibilità di fare quello che si è sempre fatto ci confina in una terra straniera, a cui vorremmo non abituarci fino in fondo nell’intima convinzione che prima o poi torneremo a “casa”, quella che era casa come l’abbiamo sempre intesa e conosciuta. La storia dell’esilio affonda nella notte dei tempi. Sospetto che per forme di esilio collettivo come quello che stiamo vivendo il precedente più illustre sia la cattività babilonese del popolo ebraico. Più di uno studioso ritiene che da quell’esperienza scioccante per migliaia di persone scoccò la scintilla dell’ispirazione per il libro dei libri. Sì, buona parte della Bibbia così come la conosciamo sarebbe stata messa per iscritto proprio durante l’esilio. Non è che la prima clamorosa manifestazione di uno schema che ritroveremo piuttosto simile nei secoli, da Dante Alighieri (“Tu proverai sí come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”) a James Joyce (“Cercherò di esprimere me stesso in qualche modo di vita o di arte il più liberamente e il più compiutamente possibile, usando a mia difesa le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia”), da Victor Hugo a Pablo Neruda, passando per Carlo Levi che dal confino dà alle stampe “Cristo si è fermato a Eboli”. I Rolling Stones, in fuga dal fisco di sua maestà, si rifugiano in una villa sulla Costa Azzurra e qui in un clima dionisiaco e sulfureo registrano il loro disco definitivo, sintomaticamente intitolato “Exile on main street”. Nell’Atene di Dracone l’esilio da pena diventa un diritto concesso a chi preferisce fuggire al processo per un delitto. E l’autoesilio sarà spesso un via di fuga battuta per riordinare le idee, ritrovare ispirazione, superare il blocco del foglio bianco. Paul Gauguin fugge a Tahiti, Vincent Van Gogh vaga ramingo per la Francia. Il rock è una fucina di autoesiliati, come Jimmy Page e Robert Plant reclusi nel villaggio gallese di Bron-Yr-Aur prima di sfornare “Led Zeppelin III”, o come il David Bowie della trilogia berlinese, anche se gli apripista sono considerati i Beatles del “Doppio bianco”, concepito di ritorno dalle meditazioni in India. Menzione d’onore, naturalmente, per Lucio Battisti e Mogol, che si isolano da tutto e tutti nel loro viaggio a cavallo attraverso l’Italia, dal quale sboccerà “Emozioni”. No, tutto questo non vuole essere una celebrazione della condizione dell’esule e sì, certo, queste sono storie a lieto fine, ma ci sono anche finali inquietanti, come quello eternato da Jack Nicholson in “Shining”. Mettiamola così: gli anni Dieci non sono stati memorabili come altri decenni per la creatività artistica, letteraria, cinematografica, musicale; se è vero come è vero quanto postulato da Fabrizio De Andrè a proposito di fiori, letame e diamanti, dietro l’angolo di questo lungo esilio potrebbe attenderci la fioritura di un nuovo rinascimento.
gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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