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La spunta blu

Dizionario delle parole smarrite

Alighiero Boetti, "Sciogliersi come neve al sole"
Alighiero Boetti, "Sciogliersi come neve al sole"
Alighiero Boetti, "Sciogliersi come neve al sole"
Alighiero Boetti, "Sciogliersi come neve al sole"

“Ho perso le parole, eppure ce le avevo qua un attimo fa” (Luciano Ligabue)

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Il dizionario delle parole smarrite è un gioco, ma solo fino a un certo punto. La pandemia ha avuto la forza di riportare molte parole al loro significato originario: virus e virale sono tornati al loro posto, nella sfera sanitaria, medica, scientifica, dopo che per qualche tempo erano traslocati verso il mondo dell'informatica, dei computer e dei social media. Ne ha imposte altre, come contagio, droplet, quarantena, lockdown, isolamento: il nostro nuovo lessico familiare fa i conti con lemmi che fino a un anno fa leggevamo solo sui bugiardini dei farmaci. E però in questo anno abbiamo anche smarrito molte delle parole intorno alle quali orbitavano porzioni piccole o grandi dei nostri giorni. Non le usiamo più perché non ci servono più. È come se le avessimo parcheggiate su qualche mensola, come si fa con i vecchi libri. “Nomina sunt consequentia rerum”, le parole sono conseguenza delle cose: ma se le cose non ci sono più, svaniscono anche i loro nomi. Ogni domenica proverò a soffiare via la polvere dalle parole che non ti ho (più) detto, per scaldarle, tenerle in allenamento, ravvivarne la fiamma e farle sentire vive in attesa di tempi diversi da questo. La prima parola del nostro dizionario è biglietto. Da mesi non mi accade di pronunciarla o scriverla se non di rado e quasi sempre la appoggio accanto a un verbo coniugato al passato. Biglietti per il cinema, per il teatro, per un museo o una mostra o un monumento, biglietti per un viaggio. Biglietti per entrare in luoghi in cui non possiamo entrare. Non li usiamo più perché non possiamo usarli. E per questo non ne parliamo più. Eppure dentro ogni biglietto c'è una storia che racconta molto di noi, dei nostri gusti, delle nostre passioni, dei nostri momenti, delle nostre tappe nella conoscenza del mondo. Adoravo i vecchi biglietti dei concerti, prima che diventassero elettronici: il profumo della carta, la filigrana, l'artwork, i disegni, le foto, le forme dei caratteri, i timbri in rilievo della Siae, ogni biglietto era un viaggio verso un altrove, una promessa di felicità, un'attrazione fatale, una forma di seduzione irresistibile. Il cassetto dove li conservo è una porta spaziotemporale che mi teletrasporta nel punto esatto in cui mi trovavo, dove riemerge quello che ero, quello che sognavo, desideravo, temevo. All'università avevo collezionato i vecchi biglietti degli Intercity da Padova a Bologna, quelli color albicocca, costavano 12 mila lire. I biglietti sono il simbolo della borghesia, ne hanno accompagnato la nascita e l'affermazione, sono il passaporto del libero arbitrio, la manifestazione del desiderio come libertà di scelta. Il biglietto è il nostro passepartout per trasferirci dalla sfera privata alla dimensione pubblica, L'assenza del biglietto è il percorso inverso, è il letargo nella tana imposto dal rischio di contagio, è il sinonimo di clausura: per poter vedere un film su Netflix non ho bisogno di biglietti, mi basta una password. Ecco, la distanza tra il mondo prima del Covid e il mondo durante il Covid è plasticamente rappresentata dal passaggio di testimone tra queste due parole: siamo passati dall'epoca dei biglietti all'epoca delle password.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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