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La spunta blu

Dal top al flop in 120 giorni: Mancini e i fantasmi di Renzi e Salvini

Carlo Carrà, "Partita di calcio"
Carlo Carrà, "Partita di calcio"
Carlo Carrà, "Partita di calcio"
Carlo Carrà, "Partita di calcio"

“Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio” (Josè Mourinho)

C'è una domanda che ronza come una mosca fastidiosa da qualche giorno: com'è stato possibile? Come è stato possibile che la Nazionale di calcio maschile sia passata nello spazio stretto, strettissimo di centoventi giorni, dal tetto d'Europa al baratro della possibile mancata qualificazione ai mondiali, la seconda consecutiva, come non era mai accaduto prima? Ci si arrovella su errori e omissioni, su pance piene e infortuni, ci si chiede cosa fare per evitare il disastro completo a fine marzo, quando si giocheranno due spareggi che saranno due finali. Non vi annoierò con dettagli tecnici e elucubrazioni tattiche, questo non è uno spiegone da pagine sportive. Piuttosto vorrei portarvi su un terreno spesso contiguo ai campi da calcio: l'arena politica. Dagli europei alle europee, dagli spareggi ai ballottaggi, spesso il calcio viene chiamato in causa da addetti ai lavori e da editorialisti per decrittare i codici della politica. Questa volta proviamo a fare l'operazione opposta: rovistiamo tra i vecchi arnesi della politica per impartire una lezione al calcio. Primo passo: asciughiamo la parabola degli Azzurri da ogni retorica epica fino ad arrivare alla spina dorsale di questa storia. Davanti ai nostri occhi apparirà una curva, simile a quelle disegnate su piani cartesiani per descrivere l'andamento dell'epidemia. Raccolta sotto zero dopo la cacciata dal mondiale russo, la squadra viene ringiovanita pescando da squadre minori o dalle riserve delle società più blasonate. Ne nasce un gruppo di semisconosciuti che scala le classifiche fino a qualificarsi ai campionati europei che finirà per vincere più o meno rocambolescamente contro ogni pronostico. Da lì in avanti sarà un rapido scivolare per poi precipitare secondo il più collaudato copione “dalle stelle alle stalle”, da zero a cento e poi di nuovo a zero. Vi ricorda qualcosa questa parabola così rapida, questo saliscendi così impetuoso e vertiginoso? Il Pd di Matteo Renzi, ad esempio, raccolto al 25 per cento della vittoria mutilata alle elezioni 2013 e portato alla vetta inesplorata del 42% alle elezioni europee del 2014, appena un anno dopo, per poi scendere fino alla sconfitta del referendum costituzionale nel 2016 e da lì fino all'attuale due per cento e fischia attribuito dal sondaggi a Italia Viva, la nuova creatura renziana. Un altro esempio? La Lega di Matteo Salvini, ereditata dall'epoca bossiana ai minimi termini percentuali dopo scandali e inchieste giudiziarie, per essere spinta fino oltre il tetto del 30 per cento alle europee (di nuovo) del 2019: da quel momento, dall'estate del Papeete, il Capitano non ne indovinerà più una, dimezzando il consenso in meno di due anni, fino a perdere le amministrative nelle grandi città, da Roma a Milano, senza riuscire a toccare palla, nonostante ogni sondaggio assegni al centrodestra un ampio vantaggio. Ci sarebbero, ancora, i Cinque stelle, da primo a quarto partito, avvinghiati in una spirale a precipizio che sembra non conoscere tregua da un'elezione all'altra. E dunque Roberto Mancini come Matteo Renzi o Matteo Salvini? Non corriamo troppo, il ct ha ancora tre mesi per dimostrare di aver capito la lezione e invertire la direzione di marcia. E cosa dice questa lezione? Che viviamo un'epoca liquida, in cui top e flop si moltiplicano e si succedono con fragorosa rapidità. Non esiste più la rendita che durante la prima repubblica aveva garantito alla Democrazia cristiana di governare per decenni indisturbata o che durante la seconda repubblica aveva sigillato per vent'anni l'alternanza tra centrodestra e centrosinistra mantenendo in primo piano sempre i medesimi leader. Nella giostra della terza repubblica può salire un perfetto sconosciuto che fino all'altro ieri faceva il bibitaro allo stadio San Paolo e diventare il leader del primo partito, salvo poi afflosciarsi e smarrirsi, punito da un elettorato fluido, rabbioso, sospettoso, più incline a bocciare che a promuovere. Oltre che liquido, poi, questo è un tempo complesso, terribilmente complesso, in cui i tentativi di semplificazione sono ricette che durano il tempo di una campagna elettorale o di un torneo, non molto di più. Non basta presentarsi con un solo schema di gioco: che sia il 4-3-3 del Mancio o la rottamazione di Renzi o i porti chiusi di Salvini, prima o poi serve una variazione sullo spartito, un piano B, una capacità di adattamento agli avversari, alla realtà in rapido mutamento, agli imprevisti, agli infortuni o agli incidenti di percorso. Suonare la stessa musica può funzionare per un po', ma alla lunga stanca.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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