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La spunta blu

Dacci oggi il nostro insulto quotidiano

Edward Hopper, "Room in New York"
Edward Hopper, "Room in New York"
Edward Hopper, "Room in New York"
Edward Hopper, "Room in New York"

Avvertenza prima di iniziare a leggere: nelle righe seguenti sono disseminate parole che potrebbero urtare la vostra sensibilità. Nelle ultime 24 ore, infatti, sono stato definito patetico buffone, fallito, giornalista di merda, schifoso, asservito al pensiero unico in modo vergognoso, spazzatura, sciacallo. Erano insulti indirizzati al Giornale di Vicenza e alla sua redazione, ai giornalisti che vi lavorano, nessuno escluso, quindi anche a me. Non è la prima volta, probabilmente non sarà l’ultima: credo che sia ormai un genere letterario l’invettiva contro il giornalista, una forma di discriminazione su base professionale. Vi chiederete in quale misterioso luogo ci sia capitato di essere investiti da questa batteria di offese: al bancone di una bettola ai margini di una periferia estrema tra viadotti e cumuli di rifiuti abbandonati? O forse nello spogliatoio di una squadra di calcio dopo una cocente sconfitta su rigore inesistente all'ultimo minuto di gioco? Per la verità questo manuale del perfetto conversatore è stato recitato sul palco più grande che sia mai stato costruito: su Facebook, un mezzo di comunicazione a cui sono iscritti più di due miliardi di esseri umani. Ho selezionato questa antologia di passi scelti tra i numerosi commenti ingiuriosi postati lunedì sotto l'immagine della prima pagina del Giornale di Vicenza. Molti di quegli insulti sono stati rimossi, per rispetto del lavoro dei giornalisti e di tutti i professionisti che ogni giorno contribuiscono alla pubblicazione del giornale, ma soprattutto per rispetto dei lettori che attraverso il giornale cercano di informarsi e di capire un po' più di quello che accade là fuori. Qualche offesa potrebbe essere rimasta: sembra che continuino a generarsi per partenogenesi, perché l’insulto ha la caratteristica di stimolare altri insulti, in una reazione a catena che si autoalimenta. Potete andare a controllare voi stessi nella pagina del GdV: troverete molte critiche, anche dure, nessuno le ha toccate, sono al loro posto, perché è giusto che sia così, sono uno stimolo a fare meglio, a dare informazioni più precise e accurate. Perché una cosa è chiara: non siamo infallibili, tutt'altro, sbagliamo anche noi. Il confine tra critica e insulto, però, non è sottile, è piuttosto netto, è una linea di grana grossa, perché opposte sono le origini: la critica nasce per migliorare, per aiutare a costruire; l'insulto ha l'unico obiettivo di colpire e distruggere. Non mi interessa qui fare la vittima né fare un processo alle notizie pubblicate in quella prima pagina: scelgo il rito abbreviato e patteggio. Qui vorrei parlare del meccanismo dell’insulto come prima reazione a una notizia, a una foto, a un titolo. E dico qui perché Lsb (no, non è una droga, non assumo né promuovo l’uso di allucinogeni, a dispetto delle apparenze; Lsb sta per “La spunta blu”) è nata due mesi fa proprio come luogo di ascolto e conversazione, in direzione ostinata e contraria, per dirla con Fabrizio De Andrè, rispetto ai fiumi di veleno che scorrono ovunque ci sia un microfono acceso, come accaduto con gli squallidi attacchi a Giorgia Meloni, o una parete virtuale da imbrattare, come abbiamo visto con le odiose ingiurie indirizzate a Liliana Segre. La storia dell’insulto affonda nella notte dei tempi, l'unica novità di questa epoca biliosa e feroce sono la facilità e rapidità di diffusione delle offese. I primi a sdoganare il turpiloquio sarebbero stati gli antichi egizi, più o meno cinquemila anni fa: se l'interpretazione di alcuni geroglifici non mente, sulle sponde del Nilo albergavano formidabili bestemmiatori seriali. Una quindicina d’anni fa gli archeologi di tutto il mondo esultarono per quella che venne subito catalogata alla voce “scoperte eccezionali”. Si trattava di una incisione rinvenuta nella “Casa della Gemma” di Ercolano. Su una parete, dopo duemila anni, era ancora leggibile questa scritta scolpita a futura memoria: “Apollinare, medico personale dell'imperatore Tito, qui evacuò egregiamente”. Era la madre di tutte le oscenità nei bagni degli autogrill. Qualsiasi antropologo vi direbbe probabilmente che non c’è civiltà senza insulto: meglio offendersi che pugnalarsi, per dire. E dunque l’insulto sarebbe una valvola di sfogo sociale per liberare tensione, rabbia, frustrazione. In fondo, un tempo si diceva che anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano. E però una cosa è imprecare in solitudine, che so?, mentre siamo al volante o mentre guardiamo una partita di pallone in tv. Un'altra è urlare insulti da codice penale in piazza, reale o virtuale non fa differenza. Non mi sono mai creduto la reincarnazione di Gandhi né di Martin Luther King, ma se non sono d’accordo con qualcuno provo a dirgli che non sono d’accordo e perché. Con il tempo mi sono dato questa regola: quando scrivo qualcosa, prima di premere l'indice sul tasto “invio” rileggo e mi chiedo se mia madre o le mie figlie potrebbero provare vergogna. È il mio modo di contare fino a cento per non dovermi pentire un minuto, o un giorno, o un anno dopo. Sono abbastanza sicuro che se inviassimo certi commenti ai loro genitori o ai loro figli, gli autori non ne sarebbero particolarmente orgogliosi: credo, anzi, che non si riconoscerebbero e si giustificherebbero dicendo che hanno scritto d’impulso, senza pensarci troppo, senza filtrare i pensieri. L'insulto è una scorciatoia per evitare di percorrere strade più lunghe e faticose. Rispettare chi non la pensa come noi cercando di convincerlo che le nostre tesi sono migliori delle sue costa fatica e richiede tempo. Per offenderlo bastano pochi secondi e un clic. Forse perché mi piace correre per molti chilometri ogni mattina, spesso in salita, quando abbiamo pensato a Lsb ci siamo detti che non avremmo cercato scorciatoie, che avremmo battuto strade lunghe, tortuose, non importava la lunghezza del viaggio, importava il tipo di viaggio che volevamo fare. Così abbiamo deciso di inibire la possibilità di commentare, almeno sul sito del giornale: però il mio indirizzo email è sempre ben visibile, pubblicato in neretto in coda a ogni post, chi vuole può scrivermi in qualsiasi momento, chi lo ha fatto sa che rispondo sempre. Scrivere una mail richiede del tempo, si conta fino a cento, se scappa la parola in più c'è modo di correggerla, se scappa l'insulto ci si può fermare un attimo prima di premere l'indice sul tasto “invio”. Sarà un caso, ma in due mesi non ho ricevuto una sola offesa. Forse dovremmo tutti immaginare di scrivere una mail con posta elettronica certificata quando commentiamo una notizia: presteremmo più attenzione a ogni singola parola. Quello che voglio dire è che il pericolo di questi nostri tempi non sono i social network, ma siamo noi che stiamo sui social network. Come la radio o la televisione, anche Facebook è uno strumento per comunicare: possiamo comunicare bene oppure possiamo comunicare male. Offendere con la bava alla bocca è cattiva comunicazione. Segnalare con garbo un errore in un titolo, l'ambiguità in un testo, l’uso improprio di una foto: questa è buona comunicazione. Come avrà capito chi segue questo blog, adoro le tazze bollenti di Earl Grey. Non sempre mi capita di bere un buon tè fuori casa: a volte è davvero pessimo. Che fare, allora? Posso andarmene senza dire nulla e non tornare più in quel locale, come farebbero quasi tutti. Oppure, come fanno troppi, posso iniziare a urlare parolacce all'indirizzo del barista, spingendo la mia esasperazione fino a imbrattare il tavolino con un pennarello indelebile. C'è poi una terza opzione, la più faticosa: posso provare a fare la mia parte se non proprio per rendere il mondo un posto migliore, almeno per bere un tè migliore, e spendere pochi secondi per suggerire al titolare di rivolgersi a un altro fornitore di infusi. Prima di scrivere un commento sotto una notizia la domanda dovrebbe essere: desidero dare il mio contributo per migliorare l’informazione di cui ho bisogno o non desidero altro che sfogare la mia rabbia, indignazione, frustrazione? Nel bene e nel male, ci è toccato vivere in un'epoca che non ha eguali nella storia dell'umanità. Noi che scriviamo e voi che leggete abbiamo la possibilità unica di cooperare per un servizio pubblico essenziale nelle democrazie: l'informazione. Non era mai accaduto prima. Perché sprecare questa occasione imboccando la scorciatoia dell'insulto? Perché non provare a prendere la strada più lunga, quella che porta più lontano, se non proprio per migliorare il mondo, almeno per migliorare una notizia?

 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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