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C'era una volta la notte

Edvard Munch - Kiss by the window (1892)
Edvard Munch - Kiss by the window (1892)
Edvard Munch - Kiss by the window (1892)
Edvard Munch - Kiss by the window (1892)

“Perché la notte appartiene agli innamorati, appartiene alla passione, appartiene a noi” (“Because the night”, Patti Smith)

 

C'era una volta la notte, profonda, intensa, diversa, libera. C'erano le luci della città, c'erano le ore piccole, il trucco, il profumo, la giacca, la gonna, il tacco. Non sono mai stato un nottambulo per divertimento a tutti i costi, ma sento che mi manca una certa idea di notte, nel suo significato più largo, aperto, quell'idea di libertà, di altrove, di possibilità, di diversità, di bellezza che si è smarrita non solo nei decreti, ma anche nella neolingua covidica, appiattita sul dizionario sanitario e sul gergo militare, che anche noi giornalisti abbiamo adottato e pratichiamo da dieci mesi, da quando la notte è diventata sinonimo di tenebre e di pericolo. La lunga notte del covid, ha da passa' 'a nuttata, il tunnel e la luce da cercare in fondo al buio: ha piantato le tende nel campo dei nostri discorsi un'accezione della notte stretta, monocorde, svilita di ogni fascino, mortificata da due mesi di coprifuoco. Persino la notte santa è diventata nelle parole di ministri e sottosegretari al più una sera anta, meglio ancora se un santo tardo pomeriggio e poi tutti a casa. La notte nel suo senso pieno è altro: è l'alternativa al giorno, è l'otium dopo il negotium, è perdersi per ritrovarsi, viaggiare in incognito senza le etichette incollate dalla luce del sole. Fateci caso: in una ventata di neomoralismo e conformismo da Italia del dopoguerra, i dipiciemme finiscono sempre per inciampare sul tentativo di classificare quello che classificabile non è. Perché di notte, quando tutto è vietato, non siamo più ragionieri, dentisti, idraulici. Siamo quello che resta quando le luci della scena pubblica si spengono. La notte sfugge alle definizioni e alle autocertificazioni, di notte non sappiamo distinguere tra coniugi, parenti stretti, congiunti, conviventi, perché la notte corre sul filo delle emozioni, dell'istinto, dei battiti del cuore, la notte fiuta il desiderio, la passione, l'amore, l'attrazione. “La luna rimarrà la luna e ci saranno sempre giovani che di sera al suo lume appartati si sorprenderanno a dire parole felici”. Mi ero appuntato questi versi di Giuseppe Ungaretti per pettinare parole arruffate che vagavano come satelliti intorno a un vuoto. Quel vuoto è la notte con il suo carico di esperienze e tentazioni, senza le quali le nostre esistenze perdono profondità e volume, perché si ripetono in cicli sempre uguali di casa-lavoro-scuola, come se ci avessero infilato l'abito dei monaci benedettini: ora et labora. Ecco, di notte dimora una forma di vita che la pandemia ha sminuzzato, schiacciato, strozzato fino a metterla al bando come un giudice manicheo, di qua il bene e di là il male, come se attraversare la notte fosse un peccato di cui chiedere perdono davanti alla santa inquisizione. Perché se il giorno è apollineo, la notte è dionisiaca, se il giorno è dovere, la notte è piacere. E allora confesso di avere molto peccato e di desiderare di peccare ancora, e ancora, e ancora, non appena l'incubo sarà finito e torneremo a sognare, quando finalmente ci riprenderemo la notte, anche solo per uscire a riveder le stelle, magari a spiare la sensuale danza di Giove e Saturno, che si avvicinano, beati loro, si uniscono, si sfiorano e si toccano, si abbracciano e chissà, forse si baciano e fanno l'amore, lassù, liberi, di notte.

 

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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