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La spunta blu

A occhi aperti

Vermeer, un dettaglio del dipinto "La ragazza con il turbante", noto anche come "La ragazza con l'orecchino di perla"
Vermeer, un dettaglio del dipinto "La ragazza con il turbante", noto anche come "La ragazza con l'orecchino di perla"
Vermeer, un dettaglio del dipinto "La ragazza con il turbante", noto anche come "La ragazza con l'orecchino di perla"
Vermeer, un dettaglio del dipinto "La ragazza con il turbante", noto anche come "La ragazza con l'orecchino di perla"

“Per ogni minuto in cui teniamo gli occhi chiusi, perdiamo sessanta secondi di luce” (Gabriel Garcia Marquez)

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Sul ponte della didattica a distanza sventola la bandiera bianca. La foto della ragazza bendata durante l'interrogazione di tedesco a me suona come il segno di una resa. Abbiamo provato a raccontarci la favola che in presenza o a distanza fosse la stessa cosa: ma la stessa cosa non è. Dentro quella foto annega il castello delle nuove certezze di carta sottile su cui abbiamo provato a costruire la “terra di mezzo”, la transizione tra il mondo di prima e il mondo dopo il virus. Ma non sta in piedi, quel castello, perché nella terra di mezzo manca una colla che si chiama fiducia. Da 14 mesi non ci fidiamo più, perché questo è il primo comandamento dell’era covidica: chiunque può infettarci. E questa diffidenza si è trasmessa alla velocità della luce, fino a inamidare ogni momento delle nostre esistenze, anche una banale interrogazione di tedesco: la benda è innanzitutto questo, un atto di diffidenza. Il guaio è che la diffidenza di un adulto verso i giovani diventa la sfiducia del giovane verso gli adulti. La ragazza con gli occhi bendati è l’iconografia della scuola a distanza, un’istituzione con il fiato grosso prova a trasferire in blocco dentro lo schermo di un computer o di un telefonino tutto quello che riusciva a fare bene o male in un’aula, senza tentare di adattare le vecchie tecniche ai nuovi strumenti, senza cercare nuove vie per trasferire il sapere e per verificare l’apprendimento. Lavagna e display non sono la stessa cosa: l’interrogazione alla lavagna non può essere riproposta tale e quale attraverso un display come se nulla cambiasse. La benda non è una soluzione perché viene subita come una forma di umiliazione: i prigionieri di guerra durante un interrogatorio vengono bendati, i condannati al patibolo vengono bendati, i ragazzini bullizzati vengono bendati. In un anno in cui siamo stati obbligati a coprirci la bocca con le mascherine, l’ordine di coprire gli occhi è insopportabile. E però voglio credere che quella benda sia solo un'eccezione tra migliaia di ore di lezioni preparate da insegnanti che hanno sofferto con i loro alunni per la scuola a distanza e hanno spremuto ogni goccia di energia per motivarli e tenerli agganciati ai programmi senza vederli sfiorire dietro uno schermo. 
Non ho mai insegnato, non è il mio mestiere e rispetto chi lo esercita con passione. Sono “solo” un padre, che non è un mestiere, ma un viaggio da fare insieme alle mie figlie. Con loro ho imparato a tenere gli occhi aperti. E a loro ricordo questo, quando posso: può accadere di sbagliare, di cadere o di perdere, ma non abbassiamo mai lo sguardo, non chiudiamo mai gli occhi, teniamo lo sguardo alto, rivolto verso il punto più lontano che riusciamo a vedere là in fondo, sì, proprio in direzione dell’orizzonte, dove il destino può farsi destinazione. E più si fa buio, come in questo anno disgraziato, più sforziamoci di tenere gli occhi aperti, di leggere, di studiare, di osservare, di esplorare, di scoprire, di cercare, di essere curiosi: con gli occhi bendati non si fa molta strada. Io non ho mai interrogato nessuno, ma a quella ragazza avrei detto questo: avvicinati allo schermo, guardiamoci negli occhi, no, non abbassarli, non ti vergognare, non avere paura, voglio solo che ci guardiamo negli occhi per un istante, voglio solo potermi fidare di te e che tu ti fidi di me. Per ogni minuto passato con gli occhi chiusi, perdiamo sessanta secondi di luce. Non ne vale la pena.

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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