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La spunta blu

A letto con la seconda dose

Una scena dal film "Amore & altri rimedi"
Una scena dal film "Amore & altri rimedi"
Una scena dal film "Amore & altri rimedi"
Una scena dal film "Amore & altri rimedi"

«Lo sai che la Tachiprina 500 se ne prendi due diventa mille? Si vede che hai provato qualcosina, parlano le tue pupille» (Calcutta, “Paracetamolo”)
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«Allora andiamo avanti con il Pfizer». Interno giorno. Sono sulla seggiola dell'anamnesi, prima della seggiola dell’iniezione, dopo le tre seggiole dell’attesa. La macchina della vaccinazione sta a metà strada tra una catena di montaggio e le selezioni di X-Factor. Il colloquio dura meno di due minuti e si conclude con una parola fatta apposta per sparare in aria le terribili goccioline. La parola è Pfizer, ovvio, però pronunciata all'italiana: non “Faiser”, ma “Pifizer”, più o meno come si scrive, ma con la “P” così marcata da far sentire anche una “i”. La prima volta che ricordo di aver letto il nome di questa casa farmaceutica... no, non è stato sulla confezione della pillola blu, non ancora almeno: è stato nel film “Amore & altri rimedi” di cui mi colpì una certa spudoratezza nelle scene di sesso e nella narrazione disinvolta di medicinali di largo consumo messi uno contro l’altro. Ammetto che non avrei mai scommesso un centesimo che quella parola fatta apposta per sputacchiare sarebbe entrata nella hit parade delle più pronunciate sul pianeta Terra.
Ero stato qui 42 giorni fa. Era di maggio, erano le nove di sera, indossavo una giacca, c'era vento, c'era ancora il coprifuoco. Oggi fa caldo, non c'è un sospiro di vento, sono le due del pomeriggio, è di luglio, è anche uno dei primi giorni senza più l'obbligo di portare la mascherina all'aperto. «Vedrai che senza mascherina ci prenderemo il primo raffreddore dell'anno, a luglio però, non a gennaio», dice un tizio in bermuda verde militare a una tizia fasciata in un abito bianco così leggero e trasparente che le si potrebbero persino indovinare i titoli degli ultimi libri letti. Vista da questo parcheggio laterale la Fiera ricorda l'astronave di “Independence Day”. Entriamo con il passo operaio delle formiche: disciplinati e istruiti, sappiamo cosa dobbiamo fare e lo vogliamo fare in fretta. La prima dose non si scorda mai. La seconda dose è già routine. Quarantadue giorni fa all'emozione della prima volta si mescolavano i racconti riversati su Facebook e Instagram da momenti di gloria, patriottismi sanitari ed epica dell'etica. Le foto con il braccio nudo esposto all'ago sembravano certi ritratti di Garibaldi, l'eroe dei due mondi lui, gli eroi delle due dosi noi. A maggio si respirava una mistica del dovere: l'imperativo categorico per uscire dal tunnel del virus. Oggi la faccenda si presenta come una pratica da chiudere per sentirsi liberi di fare un po’ quel che ci pare senza limiti. «Come facevamo prima», sospira il mio vicino di seggiola, appoggiando nell’aria di questo padiglione la parola “prima” come se ci fosse un tacito accordo sul suo significato e sull’esatta collocazione temporale. È in vena di filosofie post-apocalittiche, che lascia andare come nuvole di fumo: «Siamo animali abitudinari e nostalgici, ci piace la vita che facevamo, anche se mentre la facevamo non ci piaceva». Si fa un gran parlare di varianti delta e kappa, mentre lasciamo scorrere i quindici minuti di prudenziale attesa dopo l’iniezione. «Meglio restare schisci», sibila una ragazza, a occhio e croce avrà trent’anni, forse meno. E infatti siamo tutti schisci: non so perché, ma mesi fa immaginavo la seconda dose per un rito di passaggio, una festa della liberazione, un atto di purificazione e redenzione, da salutare esultando come un calciatore sotto la curva dopo un gol. E invece no: usciamo da qui a capo chino, con lo sguardo basso, in silenzio, preoccupati per gli effetti della seconda dose, scaramantici perché con le varianti vai a sapere cosa capiterà. Si parla anche di vacanze, di Spagna e di Grecia, di calcio e di Europei, anche se poi con una contorsione tipica di questi tempi cupi qualcuno estrae da una tasca un blister di tachipirina e siamo punto e a capo: «La prendo preventivamente, che non si sa mai», dice. «Male non fa», «Ma infatti», e giù di paracetamolo, a luglio, in infradito, con i bermuda verde militare o l’abito bianco così leggero da lasciar trasparire ogni punto di domanda: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, torneremo? «Ha presente quando ci si risposa?», torna a dire il mio vicino di seggiola. «È un po’ come la seconda dose: non c’è più l’emozione della sorpresa, è già tutto noto e collaudato, basta mettere il pilota automatico». Come nel film di Alfred Hitchcock, “Rebecca la prima moglie”: della seconda non si sa nemmeno il nome, nemmeno quando lei davvero non ce la fa più e stappa in faccia al marito tutta la rabbia imbottigliata in luna di miele: «Come potevamo essere vicini se capivo che tu pensavi sempre a Rebecca? Come potevo chiederti di amarmi se sentivo che amavi ancora Rebecca?». Rebecca, la prima dose. La seconda, in effetti, un nome nemmeno ce l’ha, ma qui, a occhio, ci prepariamo tutti per andarci a letto nel giro di 48 ore con la nostra pillola: non quella blu, quella bianca. La tachipirina. "E sento il cuore a mille"

gianmarco.mancassola@ilgiornaledivicenza.it

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