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La fine dei tassi (reali) negativi annullata dall'inflazione

Si stava meglio quando si stava peggio. Per anni i risparmiatori, piccoli e grandi, ex Bot people e aspiranti speculatori, si sono lamentati perché sul mercato le obbligazioni offrivano, si fa per dire, rendimenti pari a zero o addirittura negativi. Ora che, qualcuno impropriamente direbbe «finalmente», i Bot e i Btp rendono dall’1 al quasi 5 per cento, basta la calcolatrice per capire che in realtà i capitali stanno progressivamente perdendo di valore a una velocità molto superiore rispetto a quando il Quantitative easing aveva iniziato a inondare il mercato di tassi negativi.
Il motivo è piuttosto semplice e si può riassumere in una parola: inflazione. Le perturbazioni nei mercati dell’energia, già avvertite prima della pandemia e della guerra d’invasione scatenata dalla Russia in Ucraina, e la difficile reperibilità di materie prime hanno provocato un aumento dei prezzi generalizzato in tutto il mondo. In Italia i prezzi crescono dell’8 per cento e questo induce i risparmiatori a trovare un tipo di investimento che consenta di proteggere il più possibile il capitale accantonato dall’usura del costo della vita. Per capirci: se noi oggi avessimo 100 mila euro in conto corrente, remunerato a zero e gravato dai canoni sempre più elevati applicati dalle banche, tra un anno ci ritroveremmo con un “gruzzoletto” il cui valore reale sarebbe ridotto a 92 mila euro, vale a dire l’8 per cento in meno in seguito all’effetto dell’inflazione. La perdita di valore reale si traduce nella perdita di potere d’acquisto, che a sua volta proietta sui mercati ulteriori tensioni monetarie.
Il test per capire dove stiamo andando nel settore finanziario è semplice e si esplica in una domanda semplice: il Btp decennale che oggi rende il 4,5 per cento circa e tre-quattro anni fa era sotto il 2 per cento è diventato più appetibile e conveniente? Il tasso nominale è in realtà uno specchietto per le allodole: prendere il 2 per cento quando l’inflazione è a zero o poco più è molto più conveniente di prendere il 4,5 per cento quando l’inflazione è all’8 per cento. Nel primo caso, stiamo facendo ipotesi di scuola, il rendimento reale era del 2 per cento, mentre adesso il rendimento reale è negativo e viaggia al -3,5 per cento. Poi è anche vero che in finanza si vive di aspettative. Se, poniamo, avessimo acquistato il decennale quando il rendimento reale era positivo, adesso ci ritroveremmo in portafoglio un titolo tremendamente svalutato proprio in virtù della corsa dell’inflazione. In linea teorica, se dovessimo acquistare oggi lo stesso titolo nel frattempo svalutato e la politica restrittiva delle banche centrali dovesse fare effetto e ridurre l’inflazione, molto probabilmente avremmo fatto un affare e in futuro ci ritroveremmo con una cospicua plusvalenza, oltre che col valore reale del capitale tutelato.
Quindi non è proprio vero che si stesse meglio quando si stava peggio. Per una ragione evidente: non si stava affatto peggio. Vivere in un mondo di tassi d’interesse bassi è sinonimo, di solito, di maggiore tranquillità. Il boom dell’inflazione, tra l’altro, e il rialzo dei tassi deciso delle banche centrali hanno spinto verso il cielo il costo dei prestiti e trovare una polizza per proteggere il valore del proprio capitale è diventata un’impresa impossibile. Per i Bot people la mareggiata non finisce mai.

Marino Smiderle

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