<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

Un Parlamento con tre sedi, che nessuno riesce a ridurre

di Marco Scorzato
marco.scorzato@ilgiornaledivicenza.it
Strasburgo, una delle tre sedi del Parlamento europeo
Strasburgo, una delle tre sedi del Parlamento europeo
Strasburgo, una delle tre sedi del Parlamento europeo
Strasburgo, una delle tre sedi del Parlamento europeo

Squadrata, solida, capiente. Di colore grigio-verde militare, il più adatto per partire in “missione”. Ogni mese l’europarlamentare riempie questa valigia, detta cantine, dei documenti di lavoro nel suo ufficio a Bruxelles, dove opera per tre settimane, e la svuota nel suo ufficio a Strasburgo dove si sposta nella quarta settimana per la sessione “plenaria”. È un trasloco in piena regola, solo che questo è un trasloco di massa che si ripete ogni 30 giorni, escluso agosto, per cinque anni di fila: oltre 50 volte per legislatura. Tutto questo moltiplicato per 705, il numero dei parlamentari europei, cui si sommano gli assistenti parlamentari, i consiglieri politici, gli interpreti, i funzionari. È l’intero Europarlamento che, ogni mese, lascia la capitale del Belgio e si trapianta in Alsazia, con tutte quelle cassette metalliche caricate sui camion che completano la spedizione ufficiale dopo 430 chilometri di viaggio nel cuore del continente. Sì perché il Parlamento europeo non ha una sola sede: ne ha addirittura tre. Oltre a Bruxelles, c’è Strasburgo e poi pure Lussemburgo, sede del segretariato generale. Si stima che ogni trasloco mobiliti circa 5 mila persone.

Le radici storiche

Per gli addetti ai lavori è un tema trito e ritrito, ma non è così per (tutta) l’opinione pubblica europea. Le polemiche sono cicliche. “Due sedi sono troppe, figuriamoci tre, uno spreco assoluto: bisogna ridurle”, è il ritornello che diverse forze politiche nei decenni hanno intonato, votando anche proposte di “taglio”, salvo poi arrendersi di fronte all’“impossibilità” di cambiare le cose. Perché? E quanto costa tutto questo? Chi ci guadagna in questo stato di cose? Per rispondere occorre ripercorrere la storia dell’Unione europea, analizzare i Trattati fondativi e comprendere le prassi di funzionamento dei suoi organi. Le lancette della Storia vanno riposizionate alla Seconda Guerra Mondiale. L’Europa era in fiamme. L’epicentro del dramma era anche il suo cuore fisico, quel confine franco-tedesco tra Alsazia e Lorena che, fin dai tempi di Napoleone, si era macchiato del sangue di migliaia di soldati. La guerra scatenata da Hitler aveva riaperto ferite ancestrali. Per questo, una volta finito il conflitto, quei luoghi intrisi di bilinguismo e contesi per secoli diventavano il simbolo di una nuova era di pacificazione. È qui, a Strasburgo che nel secondo dopoguerra nasce il Consiglio d’Europa, istituzione che raduna gli Stati attorno al paradigma dei diritti umani. Un’istituzione che non c’entra con l’Ue ma ha a che fare con questa storia.

La prassi, la politica e le regole

Quando, nel 1951, viene alla luce il primo embrione dell’Europa che oggi conosciamo, la Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca), il Consiglio d’Europa ne ospita le assemblee nel suo ampio emiciclo. Si avvia così una prassi di riunioni plenarie della Ceca a Strasburgo che sarà ereditata anche dalla Comunità economica europea (Cee), nata nel 1957. Ma già dall’anno seguente, l’esigenza di lavorare a più stretto contatto con la Commissione europea fa riunire i parlamentari europei a Bruxelles, centro nevralgico delle attività della Cee, plasmando così un’altra prassi, quella che si è protratta fino ad oggi: gli eurodeputati operano a Bruxelles per tre settimane, nelle commissioni tematiche, e si spostano a Strasburgo, “sede ufficiale“, una volta al mese per la riunione plenaria. A Lussemburgo invece ha sede il segretariato generale del Parlamento: oltre 2 mila persone. Ospitare sedi istituzionali di questo tipo vuol dire creare un’economia con tutto un indotto, immobiliare e commerciale, di vastissime proporzioni. È la ragione per cui ogni sede fa di tutto per preservare la propria esistenza, anche se la triplicazione dei palazzi costa ed è spesso additata come uno spreco, anche di emissioni di Co2 generate dai trasporti di massa. Negli anni, i parlamentari di vari colori politici hanno avanzato proposte per ridurre le sedi (tagliando Strasburgo), ma i tentativi sono falliti: l’assetto odierno è sancito dai Trattati e così la sede di Strasburgo è garantita dagli accordi “costituzionali” dell’Ue. E non c’è modifica possibile senza l’unanimità degli Stati membri nel Consiglio.

I costi e i potenziali risparmi

Ma quanto costa davvero questa organizzazione policentrica? Non è semplice calcolare, rispetto ai costi di funzionamento totali (circa 2 miliardi di euro l’anno), quanto si risparmierebbe eliminando una sede (o due). Ci ha provato lo stesso Europarlamento, con uno studio del 2013, che stimava in 103 milioni di euro il risparmio annuale rinunciando alla sede di Strasburgo. «Un importo cospicuo - scrive l’Europarlamento nel suo sito ufficiale - che corrisponde tuttavia solo al 6 per cento del bilancio del Parlamento, o all’1 per cento del bilancio amministrativo dell’Ue o, ancora, allo 0,1 per cento del bilancio complessivo dell’Unione». Nel 2014 anche la Corte dei Conti europea ha calcolato l’effetto economico del taglio di una sede porterebbe a un risparmio che va da un minimo di 97,4 milioni di euro, nel caso in cui si affittassero nuovi spazi a Bruxelles, a un massimo di 127,2 milioni di euro annui, nell’ipotesi di acquisto dei nuovi immobili. La riduzione delle spese di viaggio nei bilanci della Commissione europea e del Consiglio comporterebbe un ulteriore risparmio di 5 milioni. Tanti? Pochi? Quel che è certo è che modificare i Trattati, su questo punto, è una mission impossible: finora c’è sempre stato il veto di Francia e Germania. No, la cantine non andrà in pensione. Non a breve.

Suggerimenti