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Stipendi in calo solo in Italia. E aumentano le disuguaglianze

di Marco Scorzato
marco.scorzato@ilgiornaledivicenza.it
Italia fanalino di coda: l'unica con un trend in calo dei salari, -1%
Italia fanalino di coda: l'unica con un trend in calo dei salari, -1%
Italia fanalino di coda: l'unica con un trend in calo dei salari, -1%
Italia fanalino di coda: l'unica con un trend in calo dei salari, -1%

Il “grande malato d’Europa”. Qualche anno fa si usava spesso questa espressione per definire l’Italia e il suo gigantesco debito pubblico. Ma in questo Paese non si sta benissimo nemmeno dalla parte dei privati, a guardare certi numeri: quelli dei salari dei lavoratori. Tra i Paesi dell’Unione europea, l’Italia è l’unico nel quale, negli ultimi trent’anni, anziché gonfiarsi, le buste paga si sono ammosciate. Il calo dei salari reali è certificato dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, che ogni anno fa una fotografia mondiale nella quale vale la pena zoomare sugli Stati europei. A pesare è stata la pandemia, ma che i salari medi italiani arranchino (come solo quelli del Giappone tra i Paesi sviluppati) è un fatto che prescinde da quella sciagura.

La classifica

Il Paese con il maggior salario lordo medio annuale, calcolato in dollari a prezzi costanti (anno di riferimento 2016), è il Lussemburgo: sono 78 mila nel 2022, rispetto ai 55 mila del 1991, un aumento del 40%. In generale, i salari medi più alti si erogano nell'Europa nord occidentale (Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, 64 mila dollari), mentre quelli più bassi li registrano stati membri dell'Europa centrale (Ungheria, Slovacchia 26 mila dollari) e meridionale (Grecia, 25 mila, e Portogallo, 31 mila).

Crescono (quasi) tutti, tanto o poco

Ma è l’andamento nel corso del tempo a svelare chi sta (relativamente) meglio di prima e chi no. Confrontare il trend dei salari nell’Unione europea negli ultimi trent’anni è un’operazione che deve per forza fare i conti con la Storia, quella con la S maiuscola. Certe dinamiche di reddito si spiegano con la fine della guerra fredda e la dissoluzione del blocco filo-sovietico. Sono infatti i Paesi dell’Europa centro-orientale ad aver compiuto i balzi di reddito maggiori, una volta usciti da regimi a economia pianificata e preso il treno del capitalismo di mercato, dagli anni Novanta, e dello sviluppo democratico in seno all’Unione europea, dal nuovo secolo. Il Paese che ha visto l’impennata più decisa è la Lituania, passata dai 12 mila dollari del 1995 (non c’è il dato precedente) ai 43 mila del 2022, un balzo del 262 per cento. Nello stesso arco temporale crescono molto anche la Lettonia (da 11 mila a 34 mila dollari), la Polonia (che raddoppia da oltre 18 mila dollari a 36 mila dollari); ma anche Paesi che partivano già ricchi come la Svezia (da 30 mila del 1991 a 50 mila nel 2022), o l’Irlanda, aumento analogo. Cresciuti, ma a intensità minore, anche i salari medi di Francia (da 39 mila a 52 mila), Finlandia, idem, e Germania (da 45 mila a 58 mila dollari). E un incremento piccolo lo registra anche la Spagna (da 41.300 a 42.800).

Solo l’Italia arretra

A stonare in questa graduatoria è l’Italia, unico Paese in cui i salari medi a prezzi costanti sono in calo: dell’1%. Dai 45.300 dollari del 1991 ai 44.890 del 2022. A pesare nell’ultima fase è stata la pandemia, tanto che nel 2020 la somma era scesa a 44.246. Ma nel 2019 la media non era molto più alta: 46.400, in calo rispetto all’anno migliore, il 2010, con i suoi 47.600 dollari di salario medio. Persino la Grecia, che con la crisi del 2010 ha subito una mazzata epocale, ha un saldo crescente tra il 1991 e il 2022 (+13%), anche se si è impoverita negli ultimi 13 anni: i salari medi attuali (quasi 26 mila dollari, i più bassi in questa classifica) sono lontani da quelli del 2010 (37 mila). Da notare che, durante la pandemia, alcuni Paesi hanno comunque avuto una crescita dei salari, seppur più contenuta che in altre fasi: tra questi - secondo un’indagine di Openpolis - ci sono i Paesi Bassi e la Slovenia.

Le disuguaglianze crescono in 11 Paesi

E proprio Openpolis ha acceso di recente i riflettori sui divari di reddito tra la popolazione all’interno dei singoli Paesi europei. Se è vero che dopo il picco della pandemia le buste paga stanno riprendendo fiato, è altrettanto vero che non lo fanno in modo omogeneo tra redditi alti e bassi. Per misurare i divari di reddito si usa un indice, il coefficiente di Gini: più è alto il suo valore, maggiore è la concentrazione dei redditi in un gruppo ristretto di persone. Mediamente in Europa il valore si attesta al 30,1% nel 2021, con un leggerissimo calo rispetto a 10 anni prima (-0,3%). Tra i 27 Paesi dell’Ue, sono 11 quelli nei quali l’indice di Gini è aumentato nell’ultimo decennio, cioè dove le disuguaglianze sono cresciute. Tra questi anche l’Italia (+0,5%), che nell’ultima rilevazione su dati Eurostat riferiti al 2021 ha un coefficiente Gini che si attesta al 33% L’aumento più marcato dell’Ue si è registrato in Bulgaria (+6,1%) che sfiora il 40%, il calo maggiore è della Slovacchia, -4,4%.

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