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Europa 2024, il test di maturità. E rispunta Draghi: ecco dove potrebbe finire

L'Europarlamento riunito a Strasburgo con Ursula von der Leyen
L'Europarlamento riunito a Strasburgo con Ursula von der Leyen
L'Europarlamento riunito a Strasburgo con Ursula von der Leyen
L'Europarlamento riunito a Strasburgo con Ursula von der Leyen

Il 2024 sarà un anno di esami per l’Europa. Un test di maturità. In uno scenario globale del tutto incerto, sia perché sarà l’anno delle elezioni europee nei 27 Paesi membri, sia perché andranno al voto nel complesso 62 Stati nel mondo, compresi Usa, Taiwan, India. Tempi duri in cui servirebbero leader veri: come Jacques Delors, l’ultimo grande statista europeo. Il 2023 si è chiuso con la morte del politico socialista francese che per tre volte fu presidente della Commissione europea tra il 1985 e il 1995. Se Adenauer, De Gasperi e Schuman furono i padri dell’integrazione continentale, Delors ne è stato il prosecutore come nessun altro, né prima né dopo. Con lui l’Europa consolida il mercato unico, firma Maastricht e prepara alla moneta unica, posa il pilastro sociale, allarga i confini e immagina un graduale, ulteriore allargamento degli anni Duemila, agli ex satelliti dell’Urss. L’Europa, da comunità economica, diventa Unione politica, ancorché in divenire. Ed è quel filo, politico, che oggi i governanti europei sono chiamati a tessere per meritare l’epiteto di “leader”. Pena, la frammentazione e la sconfitta sulla scena globale di fronte agli imperi americano e cinese, e alle ambizioni neoimperiali russe. Le sfide sono economiche e sociali, geopolitiche e demografiche, e la sfida delle sfide è la governance di tutti questi fronti. Quali forme e quali regole di funzionamento? Quali leader? Un’analisi in 10 punti.

1 - I 5 anni sull’ottovolante

A giugno 2024 si chiude la legislatura europea dopo 5 anni drammatici ed epocali. Una fase aperta dal New Green Deal, il grande e ambizioso (e per alcuni velleitario) piano di transizione energetica voluto dalla Commissione di Ursula von der Leyen, volto a fare dell’Unione il primo luogo a emissioni zero entro la metà del secolo. Una legislatura funestata però da due macro sciagure: la pandemia da Covid, dal 2020; e la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, dal 2022. Per certi versi, due crisi che hanno fortificato l’Ue: il piano di ripresa post Covid poggia sull’aver sfatato il tabù del debito comune europeo, e l’Italia ne è la prima beneficiaria con 200 miliardi di aiuti. Sul fronte russo-ucraino, la risposta è stata economica e politica: da un lato le sanzioni alla Russia e l’avvio di un piano, Repower Eu, che ha spezzato la dipendenza energetica da Mosca e fondato un’autonomia senza precedenti; dall’altro gli aiuti, anche in armi, alla difesa dell’Ucraina, con un fronte (fin qui) compatto: non era scontato ma era (ed è) vitale. A farne le spese, con l’inflazione post-Covid e post-guerra, è stata l’intensità del percorso di transizione “verde”. Resta evidente, tuttavia, la difficoltà (impossibilità?) per l’Unione di darsi una autentica politica estera fintantoché non ha una politica di difesa comune, vale a dire un esercito.

2 - Il nuovo patto di stabilità

In questo scenario l’Unione sta rimodulando le sue regole di funzionamento economico, quel Patto di stabilità che la pandemia aveva fatto sospendere. Quella giusta pausa è stata l’eccezione, ma non può essere la regola: ne va della tenuta del sistema complessivo. Il nuovo Patto presentato dalla Commissione, che dovrebbe essere varato definitivamente entro aprile, poggia di fatto sulle regole fissate a Maastricht 30 anni fa: mantenere il deficit al di sotto del 3% del Pil e il debito al di sotto del 60%. Si tratta di condizioni individuate per assicurare quell’equilibrio finanziario degli Stati che rischia altrimenti di essere compromesso dalle “ragioni del consenso” che spingono molti governi a fare debito pubblico per pagare le promesse elettorali, scaricando i costi sulle future generazioni e minando la stabilità dei sistemi economici. Nel nuovo Patto ci sono però dei margini di flessibilità per evitare che il risanamento dei conti si trasformi in austerità, blocco degli investimenti e rallentamento della crescita. Quanto sarà davvero flessibile è il vero rebus e, dall’Italia, molti temono che lo sarà poco.

3 - Crescita flebile

La stabilità finanziaria degli Stati membri è precondizione anche per tenere a bada l’inflazione che nell’ultimo biennio è stata galoppante, complici il Covid e la guerra e le conseguenti politiche sui tassi della Banca centrale europea, con una correzione di rotta negli ultimi mesi che ha frenato la corsa dei prezzi. Su scala globale l’Unione sconta però un andamento lento per quanto riguarda la crescita: la Banca Mondiale prevede per l’area euro un +0,7% nel 2024 e un +1,6% nel 2025, contro il +1,6% e +1,7% degli Usa, e il +4,5% della Cina nel 2024, in calo però al +4,3% nel 2025.

4 - Calo demografico e immigrazione

Sull’economia europea pesa anche il fattore demografico: il progressivo calo della popolazione, con dati drammatici soprattutto per l’Italia, impone ai 27 Stati membri scelte decisive sia nel medio-lungo termine che nell’immediato, a sostegno della genitorialità, della parità di genere e delle famiglie. A queste decisioni si lega la necessità di una seria politica sull’immigrazione regolare, invocata peraltro dalle organizzazioni datoriali alla luce della carenza di manodopera nel sistema produttivo, in particolare in Italia. Quanto all’immigrazione irregolare, l’Europa si troverà ad affrontare gli eterni problemi, perché irrisolti: oggi il sistema di accoglienza è imperniato ancora sul regolamento di Dublino che affida allo Stato di primo approdo gli obblighi e gli oneri legati all’accoglienza del richiedente asilo e all’esame della sua posizione. Il peso, nei momenti di massima pressione, è sotto gli occhi di tutti. Il problema è che il regolamento non è mai stato cambiato, nonostante una proposta votata dall’Europarlamento a favore di sistemi di redistribuzione dei migranti, a causa dell’opposizione di alcuni governi - in particolare quelli sovranisti - che hanno posto il veto a meccanismi di solidarietà. Il nodo è ancora al pettine.

5- Intelligenza artificiale e giungla digitale

Al fattore umano nel sistema economico fa da contraltare quello tecnologico: si è aperta definitivamente l’era dell’Intelligenza Artificiale e con essa la necessità di governarne l’utilizzo, a beneficio delle società aperte. L’Unione europea, in virtù del percorso legislativo avviato in questa legislatura, sarà la prima organizzazione politica al mondo a introdurre un regolamento sull’IA: l’iter di approvazione è nella sua fase finale e la disciplina si applicherà entro due anni. L’Ue è anche il primo sistema politico al mondo ad aver approvato un regolamento, il Digital Services Act, per disciplinare la giungla digitale: la norma, applicata dal 25 agosto scorso, impone ai giganti del web e dei social network di controllare cosa si riversa sulle loro piattaforme, per rimuovere contenuti d’odio le fake news. Il sistema prevede sanzioni per chi non ottempera ed è il primo tentativo di portare regole nel far west digitale, garantendo al contempo la libera manifestazione del pensiero.

6 - La nuova fase politica

A giugno, le elezioni europee getteranno le nuove basi politiche dell’Europa: da quelle dipenderà non solo la formazione dell’Europarlamento, ma anche la nomina del presidente della Commissione. C’è attesa per capire se la “maggioranza Ursula” - tra Popolari (dove siede Forza Italia), Socialisti (il gruppo del Pd), Liberali e Verdi - reggerà alla prova dell’urna o se ci sarà uno spostamento a destra, con l’ingresso dei Conservatori, il gruppo di Fratelli d’Italia, mentre ancora più a destra oggi sta la Lega. Al contempo è in corso una partita politica tra i governi nazionali che porterà a individuare anche il prossimo presidente del Consiglio europeo, l’istituzione europea che rappresenta gli Stati membri. Il presidente uscente, il belga Charles Michel, ha annunciato le dimissioni e l’intenzione di candidarsi da semplice eurodeputato alle prossime elezioni. Per il ruolo che ha occupato in questi anni, stanno salendo le quotazioni di Mario Draghi: l’ex premier italiano ed ex presidente della Bce è sostenuto dal francese Emmanuel Macron ma non dispiacerebbe nemmeno a Giorgia Meloni, secondo quanto circola negli ambienti di Bruxelles; c’è da vincere però la resistenza dei Socialisti che vorrebbero una loro figura. Negli ultimi mesi il nome di Draghi è stato associato anche ad un altro incarico europeo di vertice, la presidenza della Commissione. Dal 2014 è però applicata quella disposizione prevista dal Trattato di Lisbona che prevede la figura dello Spitzkandidat, cioè il candidato-guida: si tratta in sostanza del candidato che i partiti, prima del voto, indicano come prima scelta per la guida della Commissione in caso di una loro vittoria alle elezioni europee. In questo senso, non avendo un’appartenenza partitica, Draghi non sarà uno Spitzkandidat dei partiti maggioritari (anche se di fronte a un risultato elettorale di equilibrio che richieda la formazione di una maggioranza trasversale, un compromesso tra partiti potrebbe comunque portare alla fine al suo nome).

7 - Riforma dei Trattati e difesa comune

Dall’assetto politico del nuovo Europarlamento (oltre che da chi governa i singoli Stati) dipenderà la linea d’azione europea, sia a livello interno che su scala globale. All’interno, l’Unione è chiamata a chiarire se e come approfondire l’integrazione tra Stati, se su un modello più federale o più intergovernativo. In ballo c’è l’ipotesi di riformare i Trattati, con la riduzione delle materie in cui l’Ue decide all’unanimità (quindi spesso non decide, per il potere di veto che il sistema dell’unanimità conferisce a ogni singolo Stato). Tra le materie “paralizzate” da questo meccanismo ci sono le politiche migratorie - dove la contestata “debolezza europea” contro l’immigrazione irregolare non è altro che il frutto della gelosa conservazione da parte dei singoli Stati della propria sovranità in materia, con buona pace di ogni prassi di solidarietà - ma anche la politica estera e di difesa, e lo provano non solo la difficile tenuta di una linea comune sull’Ucraina ma anche i tentennamenti davanti al dramma del conflitto israelo-palestinese.

8 - L’allargamento dell’Unione

La necessità di riformare l’Ue è legata anche all’altro dossier aperto, l’allargamento dei suoi confini sia ai Balcani occidentali (Albania, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo, Montenegro) che all’Ucraina e alla Moldavia. Ipotizzare che un’Europa a 35 (o 36) Stati possa funzionare con le regole attuali senza impantanarsi è una velleità assoluta; pertanto, l’allargamento implicherebbe una riforma all’insegna di una maggiore integrazione. Tra le ipotesi, aleggia quel metodo che proprio Jacques Delors iniziò a delineare 35 anni fa: un’Europa “a geometria variabile”, dove al di là di una condivisione tra tutti i membri di una base di regole comuni, alcuni Stati possono legarsi più intensamente in determinati settori, come accade già oggi con la moneta unica (l’euro è adottato da 20 Stati su 27). È il sistema delle cooperazioni rafforzate, previsto dai Trattati, che potrebbe consentire a un nucleo di Paesi di praticare un’integrazione d’avanguardia e agli altri di muoversi con i loro tempi.

9 - I diritti e lo stato di diritto

Una delle condizioni per l’adesione all’Unione è il recepimento del cosiddetto “acquis” comunitario, l’insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli Stati membri. Uno dei cardini è lo stato di diritto, cioè un sistema istituzionale autenticamente democratico che riconosca e garantisca la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) e l’equilibrio tra questi. Il tema è purtroppo di stretta attualità anche per quanto riguarda almeno due dei 27 Stati già appartenenti all’Unione europea, richiamati o sanzionati per questo dall’Unione: la piega impressa dal governo ungherese di Victor Orbàn alla legislazione interna ha compresso i diritti civili, così come la deriva polacca durante gli anni di governo dei conservatori del Pis ha compromesso l’equilibrio tra poteri. La recente vittoria elettorale del centrista Tusk ha cambiato rotta alla Polonia, ma il suo esecutivo tanto sta faticando per ritrovare quell’equilibrio perduto, con una strisciante lotta istituzionale tra nuovo Parlamento, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale.

10 - Democrazie contro autocrazie

A giugno, dunque, la parola passerà agli elettori europei per designare i nuovi parlamentari a Strasburgo. Come disse David Sassoli - scomparso l’11 gennaio di 2 anni fa - all’insediamento da presidente dell’Europarlamento nel 2019, spetta «ai cittadini il compito di scrivere il proprio destino». E questo “dettaglio” fa tutta la differenza del mondo, in questo mondo marcatamente diviso tra sistemi democratici - come l’Unione europea - e autocrazie.

Marco Scorzato
marco.scorzato@ilgiornaledivicenza.it

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