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Ecco perché l'Europa elimina il segreto sugli stipendi

di Marco Scorzato
marco.scorzato@ilgiornaledivicenza.it

Avete mai visto un annuncio di lavoro che riporti l’importo dello stipendio che quell’impiego riconoscerà? E ancora: avete mai provato a sbirciare la busta paga del collega d’ufficio per vedere se, e di quanto, si discosta dalla vostra a parità di lavoro svolto? Domande retoriche, perché di annunci di lavoro che riportino lo stipendio non se ne vedono o quasi, mentre bramare di sapere quanto guadagna il compagno di reparto è una specie di sport nazionale, e peraltro resta spesso un desiderio insoddisfatto. Fra qualche anno però la risposta a queste domande in Italia e in Europa potrebbe essere diversa. Saranno gli effetti della direttiva dell’Unione europea, che è stata approvata quest’anno ma che dovrà essere recepita entro il 2026 da ogni Stato membro, e che è volta a promuovere la parità salariale tra uomini e donne e la trasparenza retributiva. Il secondo obiettivo è in sostanza propedeutico al primo. Perché tutto muove da lì: dalla discriminazione esistente tra uomo e donna nel mondo del lavoro che si traduce (anche) in una disparità di stipendi.

Donne: stipendi più bassi del 13%

Secondo corposi studi che stanno a monte della direttiva, le donne europee guadagnano in media il 13 per cento in meno rispetto agli uomini a parità di mansioni e anzianità di servizio. Un divario che, in termini pensionistici, finisce con l’allargarsi al 30 per cento. Questo deriva da una prassi, quella del segreto retributivo, nella quale si è creata la biforcazione discriminatoria dei salari in base al genere. Ci sono realtà aziendali in cui questa discriminazione non avviene, ma qui si parla di dati medi, il che vuol dire - d’altra parte - che in certi casi il divario è ben maggiore di quello medio. Ad oggi, in Italia, solo il 4 per cento degli annunci di lavoro esplicita lo stipendio previsto per l’impiego offerto. Non molto diversa, in realtà, la situazione negli altri Paesi dell’Unione, tanto che il “senso” della direttiva è davvero europeo e l’Italia non è il solo Paese a finire dietro la lavagna.

Trasparenza e parità retributiva

La legislazione degli Stati dovrà dunque adeguarsi entro il 2026. L’importo dello stipendio dovrà essere chiaro fin dall’inizio, perché dev’essere uguale per tutte e tutti. Sarà vietato alle aziende di chiedere ai candidati la Ral (retribuzione annuale lorda) precedente, evitando che possa essere il riferimento per un’offerta al ribasso. E chi si occupa di selezione del personale dovrà fare in modo che le offerte di lavoro siano neutre rispetto al genere, cioè rivolte a tutti e tutte. La direttiva riconosce a lavoratori e lavoratrici il “diritto all’informazione” per poter «richiedere e ricevere per iscritto informazioni sul loro livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore». Per le imprese con più di 250 dipendenti sono previsti adempimenti ulteriori: dovranno rendere pubblici, dal 2027, i dettagli sul divario retributivo uomini-donne; se superiore al 5%, ci dovrà essere una rivalutazione salariale con i sindacati. Non sarà come sbirciare la busta paga del collega, e del resto l’obiettivo della direttiva non è quello. Ma sarà un passo verso la riduzione delle disparità immotivate e discriminatorie.

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