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l'intervista

Ambra torna a teatro con la storia di Oliva Denaro: vittima di stupro si ribellò al matrimonio riparatore

La poliedrica artista romana, ma bresciana di adozione, porta in scena un monologo sul romanzo di Viola Ardone ispirata alla figura di Franca Viola nella Sicilia del 1965
Martedì a Breno, mercoledì a Lumezzane, ad aprile in città: Ambra Angiolini in «Oliva Denaro»
Martedì a Breno, mercoledì a Lumezzane, ad aprile in città: Ambra Angiolini in «Oliva Denaro»
Martedì a Breno, mercoledì a Lumezzane, ad aprile in città: Ambra Angiolini in «Oliva Denaro»
Martedì a Breno, mercoledì a Lumezzane, ad aprile in città: Ambra Angiolini in «Oliva Denaro»

Il destino è una scelta. Più di un attimo da cogliere, la costruzione di un amore: per la verità, la giustizia, la vita. «Oliva Denaro» era nel destino di Ambra Angiolini. Artista poliedrica per antonomasia - televisione, cinema, radio, libri e teatro nel suo percorso - e così sensibile, oltre che talentuosa, da poter vestire i panni della protagonista del romanzo di Viola Ardone ispirata alla figura di Franca Viola che, nella Sicilia del 1965, subì uno stupro e rifiutò il matrimonio riparatore.

È una rappresentazione che evoca e reinventa il reale nell’ordine magico del racconto. Una produzione Agidi - Goldenart, una drammaturgia scritta e curata da Ambra stessa con il regista Giorgio Gallione per una tournée che passerà anche dal Veneto (Adria, Conegliano, Cittadella e Mestre). «Questo spettacolo - spiega Angiolini - mi ha fatto scoprire un nuovo modo di lavorare in teatro. Entrare in modo attivo in quello che sto facendo: scrivere la drammaturgia, decidere il da farsi insieme al regista anche sul palco».

Una storia vera, un romanzo diventato monologo. Come l’ha affrontato?
Con rigore e studio. Non ho avuto occhi né cuore che per lei, Oliva.

Oliva quindicenne nell’Italia che fu.
Un periodo storico in cui c’era il matrimonio riparatore. Si dava la possibilità agli stupratori di non andare in galera imponendo le nozze alla vittima. Oliva Denaro nel romanzo, come Franca Viola nella vita vera, si oppose a quella che mi dà la nausea definire legge.

Qualcosa di disumano.
Per questo sfidò il Codice Penale, qualcosa che nessuno aveva mai osato fare. La narrazione ti fa incontrare una ragazza che ha negli occhi più albe che tramonti, di un’ingenuità e di una gentilezza rare. Ma la sua è una vera ribellione.

Una rivoluzione gentile.
Oliva fa politica anche senza accorgersene. Usa un gergo che fa anche sorridere nella prima parte, dichiarandosi favorevole o non favorevole a ciò che vede nel mondo degli adulti. Segue le regole e fa il suo; la sua è una ribellione gentile, ma trascinante. Il coraggio di opporsi alla violenza. Quando qualcuno la ferisce profondamente, indelebilmente, il pubblico ci resta male, vuol vederla vincere. E lei vincerà, perché non vuole tenere la sua ferita per sé: il suo dolore dev’essere utile agli altri. Ti chiedi «Ma questa ragazza da dove nasce?» Dalla terra, dal grano, da due genitori semplici che hanno paura del chiacchiericcio della gente, di quelle figure meschine che decidevano come le ragazze dovevano vivere. Cosa dovevano subire.

Una storia di crescita e di emancipazione, denuncia di una violenza che non risparmia nemmeno i nostri giorni.
Tutto quello schifo che leggiamo ogni giorno sui giornali è qualcosa che mi fa piangere. Mi addolora il pensiero che i bambini crescano in un mondo che sa di morte. Sento che anche il pubblico vorrebbe gridare con Oliva Denaro. Quando gli spettatori si alzano in piedi è proprio per dire quel «no» gentile, ma rivoluzionario.

A Breno e Lumezzane questo mese, a Brescia il 10 aprile al Teatro Santa Giulia: torna nel Bresciano, dove ha messo radici ed è amata da tante persone.
Un affetto profondo e reciproco, maturato in 16 anni di permanenza. Mi sento ancora molto legata alla città dove sono diventata mamma, città che mi ha resa la donna che sono. Conservo come riferimento le amicizie consolidate, l’ospedale Civile a cui mi rivolgo ancora perché mi fido ciecamente. Sono legata alle associazioni che so bene cosa fanno quotidianamente per chi ha problemi di salute. Fatico a staccarmi da Brescia e per questo torno volentieri quando posso.

Nata e cresciuta nel quartiere di Palmarola, periferia romana. L’importanza della condivisione, del gioco di squadra, l’ha imparato lì?
Oggi siamo convinti che l’isolamento ci semplifichi la vita e poi andiamo tutti dallo psicologo. La verità è che condividendo ci si sente meno soli. Il palazzo era la mia tata: mia mamma lavorava tutto il giorno e chi staccava prima dal lavoro si preoccupava di monitorare anche i figli degli altri. Ci si aiutava. Casa mia affacciava su un portierato del palazzo di fronte dove abitava una famiglia del Senegal: nella mia testa di bambina loro erano più fortunati perché avevano una loggetta, mentre in realtà era una sistemazione d’emergenza. Ero in ammirazione. Non ho mai pensato al colore diverso della pelle o a un’altra nazionalità come un problema; avevo la sensazione opposta. Per questo crescendo ho sentito l’esigenza di combattere ogni forma di razzismo. Il mio concetto di giustizia parte da quello sguardo che ho avuto il privilegio di poter avere da piccola.

Cos’è per lei il teatro?
Una certezza, da quando ho 19 anni. È casa. Una cosa intima e profonda, l’unica che ho sempre preteso: ogni anno faccio 2-3 mesi di tournée a prescindere da film, serie e altri impegni.

La sua carriera è cominciata prestissimo, a «Non è la Rai», grazie a Gianni Boncompagni.
Mi ha vista quando non sapevo neanche di esistere come artista. Aveva negli occhi qualcosa di diverso dagli altri. Intuiva quello che non avrebbe notato neanche mia madre. Si prendeva cura del talento, inventava linguaggi. Ci capivamo, eravamo in empatia. Culturalmente era un pozzo senza fine, io sbagliavo tutto e lui non mi giudicava, sorrideva e mi dava strumenti per farmi andare oltre i miei limiti. Ero una ragazzina studiosa: lo facevo per lui, per non deluderlo, come facevo a casa con mio padre quando mi dava regole che per me erano legge. Ero disciplinata.

Altro incontro fondamentale, quello con Ferzan Ozpetek: «Saturno contro», una prova da Nastro d’argento.
Voleva capire cos’aveva davanti, Ferzan. Io ho sempre cercato di scappare dalle etichette che mi avevano cucito addosso a 14 anni. Lui mi ha voluto incontrare senza pregiudizi, da esploratore dell’animo umano qual è. «Tu sei fragile - mi disse - ma è il tuo bello». A me non sembrava vero d’incontrare qualcuno che mi voleva esattamente com’ero. Al di là dell’occasione professionale, umanamente mi ha fatto sentire speciale spiegandomi com’ero e che quello che ero andava bene. Ha capito chi sono: una persona che vuole capire. Non apprezzo le campagne social che durano il tempo di un respiro né cerco i titoloni, mi interessano i contenuti. La Carta di Lorenzo per la promozione della sicurezza sul lavoro, il tema dell’omogenitorialità: mi occupo di tutto quello che mi riguarda da sempre. Non posso salvare il mondo, però ci sono e m’impegno per ciò in cui credo ogni giorno.

Gian Paolo Laffranchi

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