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L'allarme

Alpi mai così povere di neve in 600 anni

La durata si è ridotta di oltre un mese

Il candido manto delle Alpi è sempre più effimero: nell’ultimo secolo la persistenza della neve si è ridotta di oltre un mese, arrivando a segnare il record negativo dai tempi di Cristoforo Colombo e Leonardo da Vinci. Lo rivelano gli anelli di accrescimento delle piante di ginepro comune cresciute in quota, analizzate per uno studio senza precedenti dai ricercatori dell’Università di Padova e del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).

I risultati, pubblicati su Nature Climate Change, fanno toccare con mano le allarmanti conseguenze del riscaldamento globale, che secondo la Nasa e l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha reso gli anni di quest’ultimo decennio (compreso il 2022) tra i più caldi mai registrati.

«Per la prima volta siamo riusciti a ricostruire la durata del manto nevoso su quasi tutto l’arco alpino italiano degli ultimi 600 anni», spiega all’ANSA il primo autore dello studio, Marco Carrer dell’Università di Padova. «Ne emerge che tra un anno e l’altro ci sono fluttuazioni importanti, ed è normale che sia così, ci sono dei periodi un po' più lunghi che si discostano dalla media ma il dato molto evidente è che tra il 1400 e il 1900 siamo stati su livelli più o meno stabili ora invece, da diversi decenni si assiste a una costante discesa».

Un calo ben visibile dai grafici e che può essere riassunto numericamente in meno 36 giorni di copertura nevosa (nelle quote tra 2.000 e 2.500 metri) e una riduzione del 5,6% negli ultimi 50 anni. Un declino senza precedenti che si ripercuote non solo sugli ecosistemi montani, ma anche su tutte le attività umane che dipendono dai bacini idrologici a valle: la secca del Po ne è stato un esempio.

È «come se le Alpi si fossero abbassate di quasi 300 metri», osserva Michele Brunetti dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Cnr. «A 2.000 metri la durata della neve oggi è come quella che si registrava qualche decennio fa a 1.700 metri». Tenendo conto dei possibili scenari futuri, precisa l’esperto, «è possibile immaginare un’ulteriore riduzione tra 26 e 76 giorni da qui a fine secolo».

Del resto «la tendenza al riscaldamento globale è allarmante», come ha sottolineato il numero uno della Nasa, Bill Nelson, presentando il rapporto dell’ente spaziale americano che definisce il 2022 come il quinto più caldo mai registrato al pari del 2015, con temperature globali di 0,89 gradi sopra la media per il periodo di riferimento dei dati della Nasa (1951-1980). Lo stesso aveva detto pochi giorni fa anche Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, mentre un’analisi indipendente dell’Agenzia americana per l’Atmosfera e gli oceani (Noaa), condotta con gli stessi dati grezzi della Nasa ma con una diversa metodologia e un periodo di riferimento differente, ha concluso che il 2022 è stato il sesto anno più caldo mai documentato.

Questo nonostante il ritorno per il terzo anno consecutivo de La Nina nella fascia tropicale dell’Oceano Pacifico, che secondo la Nasa potrebbe aver lievemente abbassato le temperature globali di circa 0,006 gradi. L’ente spaziale americano sottolinea come gli ultimi nove anni siano stati i più caldi da quando è iniziata la moderna registrazione delle temperature nel 1880, mentre l’ultimo bollettino del Wmo dimostra che l’anno appena concluso è stato l’ottavo consecutivo (2015-2022) nel quale le temperature globali hanno raggiunto almeno un grado sopra i livelli pre-industriali.

«Il motivo per questa tendenza al riscaldamento è che le attività umane continuano a pompare enormi quantità di gas serra in atmosfera», osserva Gavin Schmidt, direttore del principale centro per i modelli climatici della Nasa (Giss). Le emissioni sono tornate a salire dopo una breve pausa nel 2020 dovuta alla pandemia e proprio di recente i ricercatori della Nasa hanno determinato che le emissioni di anidride carbonica del 2022 sono state le più alte mai documentate.

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