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Real 40, Giancarlo Salvi

Real 40, Giancarlo Salvi

Quando dici il destino o i particolari, grandi o piccoli, che ti cambiano il corso della vita disegnandola in un modo piuttosto che in un altro. È il gioco dei se e dei ma, degli episodi che ti trasformano una partita, di un fallo laterale invertito, di un rimpallo fortuito o di un lancio sballato che magari stanno alla base di un gol. E si potrebbe andare avanti all'infinito, scoprendo una montagna di quelle casualità che hanno contribuito a creare la storia.

Dici Real Vicenza, ad esempio, e non puoi chiederti cosa sarebbe – meglio, non sarebbe – successo se il buon GiBì Fabbri non fosse retrocesso col suo Piacenza costringendo i suoi dirigenti a cambiare, pur a malincuore, condottiero. Ancora, se il povero Sandro Vitali in ritiro precampionato non avesse deciso che il calcio non faceva più per lui forse Paolo Rossi non sarebbe diventato Pablito o, magari, lo sarebbe diventato sotto un altro firmamento. E ancora – e poi basta – se Giancarlo Salvi si fosse impuntato di brutto contro la Sampdoria che l'aveva brutalmente scaricato dopo una lunghissima militanza, rifiutando il trasferimento dalle parti di via Schio o, peggio, accettando la corte serrata (e milionaria) che gli faceva la Salernitana. E senza Salvi c'è il forte sospetto che Rossi avrebbe segnato qualche gol in meno e che il Vicenza forse non sarebbe diventato Real. Se, se, se. Meno male che la realtà ha voluto altrimenti, giusto per costruire la felicità in casa nostra.

 

Giancarlo Salvi, allora. Il regista, in campo e fuori, di quel miracolo calcistico sbocciato quasi d'incanto nella periferia del calcio nobile e poi fragorosamente esploso, amato ed ammirato un po' dappertutto. L'uomo dai piedi buoni, l'intelligenza in mezzo al campo, quello che accarezzava il pallone costruendo traiettorie perfette per la felicità dei compagni e la disperazione degli avversari. E pensare che lui, a Vicenza, non voleva proprio venire. No, niente di preconcetto nei confronti di questa terra che poi avrebbe amato davvero fino alla morte. Il fatto è che lui non aveva gradito – eufemismo – il trattamento riservatogli dalla sua Sampdoria, che aveva scelto di liberarsi di lui. Lui che sulla sponda blucerchiata aveva soggiornato con eccellenti risultati per 10 stagioni abbondanti. Lui che aveva collezionato 291 presenze complessive, di cui 231 nella massima serie. Lui che il popolo della Samp amava come si fa con le bandiere, ricambiato. Lui che aveva abbracciato quel mondo a 14 anni e che sperava sarebbe stato suo per sempre.

Quando dici il destino, appunto. E ti viene allora da sorridere pensando che il Real Vicenza in qualche modo deve le sue fortune anche a Eugenio Bersellini. Già, non fosse stato per il “sergente di ferro” che una volta a Genova aveva deciso di chiudere col passato liberandosi dei senatori per abbracciare la linea verde, Salvi non sarebbe finito sul mercato, a sua insaputa come va di moda adesso. «Un giorno d'estate mi telefona un giornalista del Secolo XIX – ha raccontato qualche anno fa il giocatore in una lunga intervista al nostro Marino Smiderle – per chiedermi cosa ne pensavo del mio trasferimento a Vicenza». «Quella sera andammo a prendere una copia del “Secolo” proprio nella sede del giornale – qui a ricordare è Olga Salvi, la moglie – e Giancarlo ci restò malissimo perché giudicava ingiusto e ingrato il modo in cui la Samp l'aveva trattato. Per questo all'inizio disse no al trasferimento. Ma poi...».

 

A decidere il poi ci mise parecchio del suo anche donna Olga. «I miei sono originari di Montecchia di Crosara – racconta – e alcuni miei cugini hanno studiato al “Rossi”, per cui Vicenza la conoscevo già e mi piaceva. Accompagnai mio marito a spasso per la città, salimmo anche a Monte Berico, un po' alla volta Giancarlo si convinse, giocò un'amichevole di prova a Mantova e, quando tornò a casa, mi disse che aveva deciso di restare. In ballo c'era anche la Salernitana, il cui presidente ci tempestava di telefonava promettendoci tra l'altro la disponibilità di una villa a Vietri, sul mare. Ma avevamo le bimbe piccole, scegliemmo di restare al nord». E lì cominciarono la nuova vita di Salvi e... il Real Vicenza. Con il più gustoso antipasto dal sapore di vendetta (ma lui ha sempre parlato semplicemente di rivincita) andato in scena proprio a casa Samp, esordio di Coppa Italia, stagione 1975-76. Era domenica 30 agosto ed il Vicenza di GiBì Fabbri e compagnia andò a violare Marassi con un gol di Lelj. Salvi fu accolto con tutti gli onori del caso, col suo nome invocato a lungo mentre la Sampdoria soffriva le giocate di una squadra che stava studiando da Real. E che avrebbe vinto il girone di Coppa Italia a punteggio pieno, poi il campionato andando a riscoprire l'ebbrezza della serie A.

 

Quello successivo fu l'anno magico, iniziato un po' così, poi aggiustato al volo col ritorno di Cerilli e l'innesto di Guidetti a centrocampo. Il volo prese l'avvio col sacco di Bergamo, un rotondo 4-2 benedetto dall'arbitraggio di Pieri senior. Poi fu una cavalcata trionfale, con tutta l'Italia che applaudiva un giocattolo meraviglioso capace di tenere testa nientemeno che alla Juve. I gol di Pablito, certo, l'eleganza di Carrera, le parate di Galli, l'imprevedibilità di Cerilli, i chilometri di Filippi. E a dirigere l'orchestra lui, il “regalo” di Bersellini alla causa biancorossa, le sue ispirazioni continue per il bomber di riferimento e non solo. Quell'anno un solo gol (a Foggia, nell'1-1 poi impattato dal dischetto da Del Neri) ma tanta qualità al servizio di una squadra straordinaria. «Sapeva sempre dove mettere la palla – il ricordo dei suoi vecchi compagni, da Rossi, a Cerilli e Prestanti – perché aveva un'intelligenza calcistica superiore. E non solo calcistica». «Era davvero uno splendido gruppo – chiosa Olga Salvi – ed anche noi mogli credo abbiamo contribuito creando a nostra volta un gruppetto molto unito, nel segno dell'amicizia».

La magia biancorossa durò per un'altra mezza stagione prima del rovinoso, incredibile declino. Dopo quell'anno Salvi andò a Varese, conquistando l'ennesima promozione, prima di dedicarsi agli affari (con Rossi, naturalmente), scegliendo Vicenza come dorata residenza, amato da dirigente sportivo prima e da normale cittadino poi. Col calcio poi ha chiuso, pieno di rabbia per il coinvolgimento (con squalifica) nella vicenda delle scommesse in cui aveva urlato invano la sua innocenza. Era bello vederlo passeggiare in centro, l'inseparabile sigaro tra le labbra, puntualmente elegante per trasmettere la simpatia di sempre. Se n'è andato poco meno di un anno fa. E a noi, inguaribili innamorati del calcio che fu, piace pensarlo sgambettare ancora, sotto lo sguardo burbero di GiBì, suggerendo giocate illuminate. Col buon Vasco Casetto, che soltanto da pochi giorni li ha raggiunti, pronto a regalare un massaggio rigenerante. Nel segno di una nostalgia mai così canaglia.

 

Andrea Libondi

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