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Rumiz sa “esplorare”
le nostre eredità storiche

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

CALDOGNO

Due criteri mi guidano alla scelta di una lettura: il genere e l'autore. Preferisco la saggistica soprattutto quando si occupa di costume, storia e viaggi, qualsiasi essi siano: in moto, a piedi, in bici o a cavallo, per mare, per cielo o per terra purché mi arricchiscano di conoscenze e nuovi orizzonti. Spazi dove incontrare scrittori essenziali, curiosi e comunque tali da trasmettere emozioni di cui abbeverarmi. Non posso dire di aver scoperto il meglio assoluto, ma certamente ho trovato un autore in cui mi scopro: un uomo di confine, un triestino che risponde al nome di Paolo Rumiz. Immediato, asciutto e lirico al tempo stesso. Con “Appia” ha contributo a rispolverare la coscienza di un’ eredità storica sopita. Pagine coinvolgenti in un susseguirsi di esperienze nuove e imprevedibili. Incontri con persone semplici legate al duro lavoro quotidiano e altre illuminate da profonda conoscenza di questa nostra terra, depositaria di esaltanti memorie di uomini e imprese di cui dovremmo essere orgogliosi custodi. Memorie purtroppo spesso avvilite da indegni eredi affogati in un’ignoranza colpevole e offensiva verso la natura che ci subisce. Di queste realtà scrive Rumiz, a volte con orgoglio e altre con rabbia, in un libro che oltre a viaggio è un’esplorazione col “passo del legionario”, come lui la definisce, godendo dei sapori di antiche cibarie, nell'arrancare lungo la Regina Viarum, la madre di tutte le superstrade, concepita dal console Appio Claudio più di duemilatrecento anni fa, su cui transitarono le legioni di Roma: l'Agro Pontino, le campagne di Capua Vetere ove vennero crocefissi a migliaia i gladiatori di Spartaco e ancora le terre dei Sanniti, dei Dauni, degli Svevi e dei Greci. Via per le assolate gravine e le fertili piane metapontine. Giù fino all'antica Tarentum e Brindisium lambite dello Ionio, sulla rotta verso l'Oriente e la Magna Grecia, verso nuove frontiere fin dove i cartografi scrissero: “Hic sunt leones”.

Testo inviato dalla Biblioteca di Caldogno

Luigi Girardi

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