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Verso un'economia degli stakeholder

È sempre più intenso e attuale il dibattito che fa riferimento al passaggio in atto da un’economia e una gestione d’impresa che privilegiano l’obiettivo della creazione di valore per gli azionisti a un nuovo assetto e a una nuova gamma di obiettivi che abbracciano, invece, il perseguimento equilibrato degli interessi degli stakeholder. Si tratta di un passaggio rilevante, non sempre percepito da un’opinione pubblica che continua ad avere dell’impresa l’immagine di un luogo dove si creano sì ricchezza e benessere, ma in modo iniquo e diseguale e per la quale utilizzare il termine “sfruttamento” non è per nulla fuori luogo. Ma l’evoluzione è reale e non solo di facciata. Può non essere una rivoluzione nel senso abituale del termine, non trattandosi di una classica contrapposizione tra “capitale” e “lavoro”. Ma certo ha implicazioni che vanno ben oltre un semplice mutamento di equilibri nel mondo del business. Il profitto è ed è sempre stato l’obiettivo dell’attività d’impresa: senza un margine positivo tra ricavi e costi non si crea né ricchezza né occupazione. Ma, certo, con il termine profitto si sono intese da sempre cose molto diverse. La questione centrale resta naturalmente quella di definire l’obiettivo dell’attività d’impresa e la distribuzione della ricchezza da essa prodotta. Oggi sempre più si tende a dare per scontato che l’impresa debba proporsi uno scopo (purpose) che vada ben al di là della creazione del profitto e dell’attribuzione della maggior parte di esso ai suoi azionisti. Ma non è certamente stata questa la filosofia prevalente dell’ultimo mezzo secolo, in cui ha dominato il concetto di massimizzazione del valore per gli azionisti espresso negli anni Settanta del secolo scorso da Milton Friedman, contrario all’idea di una responsabilità dell’impresa che andasse oltre la generazione dei profitti e si facesse carico di obiettivi esterni, come l’ambiente o la società. Oggi l’ideologia della creazione e massimizzazione del valore per gli azionisti ha perso smalto e, nel complesso, ha perso legittimità di fronte a un nuovo sistema di pensiero che richiama la responsabilità sociale dell’impresa in modi diversi. Se Friedman aborriva l’espressione CSR, corporate social responsibility, altri sono rimasti ancora più sconcertati quando l’economista Michael Porter ha coniato nel 2011 l’espressione di “valore condiviso”, shared value, con la quale definiva i compiti e gli scopi dell’attività d’impresa in termini di utilità per tutti i soggetti afferenti, cioè appunto gli stakeholder, i portatori di interesse quali i dipendenti, i clienti, i fornitori, il territorio l’ambiente e, nell’insieme, la società. Dopo un inizio lento e non sempre bene accetto, l’insieme di espressioni richiamate – cioè CSR, valore condiviso e, più di recente, purpose – è penetrato prima nel lessico e poi nei programmi delle aziende in tutto il mondo. Talvolta solo nel lessico, astutamente utilizzato in campagne di marketing prive di reale contenuto, talvolta in modo più concreto ma ancora approssimativo, talvolta in modo convinto e organizzato. Oggi sono molte le imprese, di grande dimensione ma sempre di più anche di minore entità, che operano in base ai principi del valore condiviso e del purpose. Non si tratta di orientamento benpensante basato su un fondo di filantropia, bensì di un nuovo modo di percepire e concepire le finalità e le responsabilità di chi opera nel mondo del business, sia nelle aziende produttive sia nelle società finanziarie. Le spinte sono, come si è detto, concrete e bene identificabili. Vedremo poi se saranno anche appropriate e sufficienti. Alla base del cambiamento in atto vi sono, come si è detto, parecchi motivi che vanno a riconnettersi con molti degli spunti indicati in precedenza. Le manifestazioni giovanili che mettono sullo stesso piano imprese, finanza e incapacità degli Stati nel gestire le transizioni in atto possono essere ingenue e imprecise, ma definiscono un disagio sociale che va ben oltre la questione climatica per abbracciare punti diversi di difficoltà e crisi. Tenere conto allo stesso momento delle grandi trasformazioni macroscopiche a livello planetario e i forti cambiamenti nel mondo del business non è un esercizio semplice, ma è quanto oggi le classi dirigenti sono chiamate a realizzare. Se, infatti, nel guardare alla crisi del capitalismo si identificano i grandi cambiamenti in corso descritti in apertura, occorre allo stesso tempo identificare nel modo migliore possibile i punti di crisi interni al mondo delle imprese, che costituiscono l’attore economico principale dell’economia di mercato e uno dei soggetti portanti alla base degli equilibri sia politici sia sociali in ogni Paese. In un recente volume pubblicato da Harvard Business Review Italia, dal significativo titolo Per un capitalismo inclusivo, tutti gli autori dei saggi del volume parlano in modo esplicito di crisi del capitalismo e/o dell’impresa capitalistica, auspicando mutamenti rapidi, o anche urgenti, e incisivi. Hubert Joly propone una “dichiarazione di interdipendenza” invocando una rifondazione del business e del capitalismo per costruire un futuro più sostenibile. Paul Polman lancia il manifesto dell’impresa “positiva netta”, che è un altro modo per esprimere le stesse intenzioni. Bill Gates chiede alle imprese di impegnarsi per contrastare il cambiamento climatico in uno sforzo straordinario per tutta l’umanità. La Business Roundtable e il World Economic Forum presentano i loro manifesti per chiamare all’azione le più grandi imprese del mondo per avviare a soluzione questioni planetarie come, ancora una volta, il cambiamento climatico e la crescita insopportabile delle diseguaglianze. Melinda Gates propone un progetto globale capace di rompere gli schemi di genere prevalenti e dare alle donne la giusta collocazione nelle nostre società. Mariana Mazzuccato esorta le imprese ad assumersi maggiori responsabilità in un processo di cambiamento necessario che veda anche un ruolo rinnovato della capacità d’azione degli Stati. Rebecca Henderson arriva a invocare un maggiore coinvolgimento delle imprese nella politica, chiedendo loro non solo la capacità di ridefinire il loro rapporto con la società, nel senso già evidenziato di nuovo equilibrio fra shareholder e stakeholder, ma addirittura di disponibilità ad assumersi un ruolo preciso di sostegno e promozione della democrazia. Anime belle che esprimono buoni pensieri dall’interno dei loro rifugi dorati e confortevoli? O leader di pensiero in grado di esercitare un’adeguata influenza sul mondo del business, e sulla società, realizzando essi stessi nei loro ambiti i programmi e i progetti da loro stessi indicati? Non sembra il caso di sottovalutarne la buona fede e la capacità d’impatto, anche se nelle piazze e nell’opinione pubblica predomina un senso di scetticismo o peggio. La strada per la credibilità è lunga e molto le generazioni al comando hanno da dimostrare per recuperare errori passati ed esitazioni presenti.