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Il capitale oltre il capitalismo

A fine 2021, in una manifestazione di giovani a Milano in coincidenza con l’avvio della grande conferenza sul clima di Glasgow, Cop 26, si erano sentiti slogan come “stop greenwashing”, “rise up for climate justice” o il più creativo “o la borsa o la vita”. Slogan forti, efficaci, in parte anche giusti, anche se inevitabilmente un po’ ingenui. Gli slogan, d’altra parte, sono necessariamente grezzi e sintetici e l’ultimo citato se la prendeva con il simbolo dell’economia capitalista di mercato, appunto la borsa, con i manifestanti accampati proprio di fronte alla Borsa di Milano nella ben nota Piazza degli Affari. Erano e sono i nostri figli e nipoti, in compagnia della immancabile Greta, che a sua volta accendeva gli animi dichiarando urbi et orbi che sulla crisi climatica gli Stati “non fanno niente”. Primi ministri e media condiscendenti non hanno contraddetto questa dichiarazione, forte, efficace ma anche piuttosto infondata, dal momento che il mondo intero è crescentemente mobilitato a contrastare il riscaldamento globale con una costosissima, per quanto tardiva, decarbonizzazione. Resta che, in ogni caso, Greta e i milioni di giovani che ovunque a lei si ispirano hanno mille ragioni per manifestare la propria inquietudine, sia pure solo a suon di slogan. Programmi e azioni, infatti, non competono al loro mondo bensì a quello degli adulti. Questa inquietudine riguarda il futuro, il loro e quello del pianeta dove vivono, dove tutti viviamo. Occorre posizionarsi correttamente e vestire i panni degli adolescenti e dei millennial iperconnessi di oggi per coglierne il punto di vista, che può essere il punto di partenza per altri punti di vista più realistici e informati, e certamente più carichi di responsabilità. Le nuove generazioni sono oggi di fronte a un mondo adulto che dice loro che entro pochi anni l’equilibrio climatico del pianeta potrebbe cambiare in modo irreversibile, e decisamente in peggio. Che migliaia di specie animali si stanno estinguendo. Che l’aumento delle temperature genererà l’innalzamento del livello dei mari causando inondazioni catastrofiche che manderanno sottacqua le città costiere da Venezia a New York alle Maldive. Che parlare di sesta estinzione di massa, causata dalle attività umane, potrebbe non essere un’esagerazione da libro di fantascienza. E ancora: che la micidiale pandemia che stiamo vivendo e che ha provocato 5 milioni di vittime, creando nei giovani nuovi timori e talvolta disagi psicologici, avrà con ogni probabilità regolari repliche in futuro. Che le crisi economiche e finanziarie sono e restano la norma nel quadro di un’economia capitalistica di mercato. Che l’aumento delle diseguaglianze di reddito tenderà più facilmente ad accentuarsi che a ridursi. Che il lavoro potrà scarseggiare in funzione di avanzamenti tecnologici sostitutivi o, quantomeno, a deteriorarsi in qualità. Che l’istruzione e la formazione professionale non riescono a tenere il passo. Che gli squilibri geopolitici si aggraveranno in un quadro di confronto planetario globale tra superpotenze, con contraccolpi regionali cui si potranno legare nuove e antiche forme di terrorismo. Che la sicurezza informatica è una chimera. E che la violenza in rete, cui anche i giovani partecipano spesso inconsapevolmente, non si potrà né neutralizzare né contenere. Basta così. Si potrebbe andare oltre nel cercare di vestire i panni di un adolescente di oggi ma il quadro descritto non ha funzione di analisi ma solo di esempio. Le nuove generazioni, battezzate millenial, generazione Z, K o altro, hanno di fronte un quadro complesso e poco rassicurante di cui attribuiscono inevitabilmente la responsabilità alle generazioni oggi in controllo o, se vogliamo, al potere. In una società che ovunque nel mondo, tranne poche indesiderabili eccezioni, si basa sulla democrazia in forme più o meno libere e sull’economia fondata sul funzionamento, anche qui più o meno libero, dei mercati. Parliamo, dunque, del capitalismo contemporaneo, la forma dominante nella realtà di oggi, dopo l’esaurimento per sfinimento dei tentativi novecenteschi di costruzione del socialismo reale e pianificato ed essendo le eccezioni attuali poche e sostanzialmente irrilevanti. Questo capitalismo è, secondo l’opinione prevalente, in crisi. Oggi si guarda a svariati punti di crisi dell’economia e della società capitaliste e se ne auspica correttivi diversi per fare in modo che il capitalismo non crolli sotto il peso dei propri difetti, delle proprie manchevolezze e delle proprie contraddizioni. Esiste anche un’opinione minoritaria che tende a sottolineare più i progressi straordinari compiuti dall’umanità nei 70 o 100 anni passati, connotati da mercati aperti, integrati e interconnessi, che non le falle e i guadagni diseguali della globalizzazione. Ma, come sempre accade, sono le voci critiche quelle che toccano le corde più profonde mentre le sia pure ragionevoli voci contrarie tendono a essere ignorate, o sottovalutate, perché in fondo le conquiste del passato sono ormai date per acquisite mentre gli squilibri del presente e le paure del futuro tengono campo quasi in esclusiva. Dunque, la crisi del capitalismo, che non sta crollando anche se per molti versi non se la passa molto bene. I punti di crisi sono molti, quelli di cui si è parlato ma anche altri, se volessimo includere anche la crisi del welfare state, della leadership, della governance degli Stati nazionali, del consenso politico, della democrazia stessa sotto l’assalto di autoritarismi e populismi di destra e di sinistra. Ma, fino a prova contraria, anche i critici più feroci non riescono finora a concepire e proporre un modello alternativo. Il capitalismo funziona male, ma non abbiamo che un’opzione ed è quella di correggerlo e di migliorarlo. Il capitalismo è per natura sostanzialmente squilibrato e ingiusto. Ma è quello che abbiamo, e le possibili alternative sono peggio. Dunque, facciamo di tutto per renderlo più inclusivo, giusto e sostenibile. E, in effetti, il capitalismo sta cambiando, in reazione a una molteplicità di stimoli che rendono l’evoluzione in atto ineludibile. Gli stimoli sono chiaramente definibili: rivoluzione tecnologica; crisi climatica; crisi ambientale; transizione energetica; diseguaglianze di reddito; insufficiente inclusione delle minoranze, e specialmente delle donne, nei processi economici e sociali e nelle realtà d’impresa; ricorrenti crisi finanziarie; concentrazione del potere economico e di mercato in pochi soggetti tecnologicamente dominanti; governance debole nelle istituzioni nazionali e sovranazionali; disagio sociale e difficoltà di raccogliere e organizzare il consenso. Ma se questi punti di crisi sono abbastanza facilmente identificabili, meno semplice è capire se i punti di cambiamento siano a loro volta bene identificati e se le soluzioni cui si punta siano sufficienti a scongiurare contraccolpi traumatici. E questo solo il futuro ce lo dirà.

Enrico Sasson