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La storia di una 29enne

«Anni di silenzi, ora è una liberazione. Ma mia madre non mi ha capita»

Mentre si apre il dibattito dopo la proposta del governatore Zaia di istituire a Padova il Centro per curare i disturbi dell'identità di genere, abbiamo intervistato chi invece ha deciso di completare il suo percorso all’estero. «A settembre in Thailandia completerò il percorso iniziato in pieno lockdown», racconta Ambra, nome di fantasia, 29 anni, veronese e impiegata d’azienda.

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La storia di "Ambra"

Anagraficamente è già donna. «Durante il primo lockdown ho avuto più tempo di entrare in contatto con me stessa; l’appuntamento con la psicologa con cui volevo confrontarmi sentendomi a disagio con il corpo era saltato per la quarantena; non mi rimaneva che l’amica del cuore: se non ci fosse stata lei probabilmente avrei seguito i cattivi pensieri che mi giravano in testa».

E ha iniziato l’iter. «Sei mesi di sedute psicologiche per una valutazione che confermi la disforia di genere. Successivamente l’endocrinologo mi ha prescritto la terapia ormonale che varia da persona e dalle analisi ripetute ogni sei mesi. Ottenuta l’attribuzione di genere, con la relazione endocrinologica e psicologica, mi sono rivolta a un’avvocata per il cambio dello stato anagrafico, patente, carta d’identità, passaporto, codice fiscale. L’avvocata ha presentato il ricorso davanti al giudice che ha autorizzato l’intervento chirurgico, e a settembre potrò operarmi». «Il cambio di sesso è una liberazione» dice Ambra, «ma il trapianto di utero è un’operazione pericolosa e ancora in fase sperimentale. Mi rivolgo a una clinica privata thailandese specializzata dove resterò un mese, sette ore sotto i ferri e poi avrò le stesse funzionalità di una donna».

Chiediamo ad Ambra se è stata vittima di bullismo da giovane, o di emarginazione e derisione da adulta. «Ho sempre tenuto tutto nascosto. Durante le scuole elementari mettevo i vestiti di mamma quando non era in casa. Più grande ho cercato di capire se fossi omosessuale, ma per impostazione famigliare faticavo a darmi una risposta. Mamma e mia sorella hanno sempre rifiutato la mia decisione, e quando dissi che avrei iniziato la terapia, mamma mi rispose che non era pronta e quindi preferiva che uscissi di casa. Invece mio padre ha cercato di comprendermi, e ci siamo riavvicinati. La mia fortuna è stata la mia compagna».

«Potrei farmi operare dal servizio sanitario pubblico che è gratuito ma l’iter è complicato, i passaggi burocratici dovrebbero essere automatici e invece si perdono fra una carta e l'altra. C’è una legge, manca la disponibilità o forse non tutti sono ancora pronti il cambiamento: conosco persone che sono dovute tornare sotto i ferri. Conclusa l’operazione, cambierò lavoro e andrò ad abitare dove non mi conoscono. Poi magari mi rifarò anche il seno».

 

 

Anna Perlini

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