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L'intervista

Donatela, suicida in carcere a 27 anni. Il magistrato: «Ecco perché abbiamo fallito»

Donatela Hodo
Donatela Hodo
Donatela Hodo
Donatela Hodo

Il primo contatto con Donatela Hodo, la giovane che si è tolta la vita in carcere a Montorio (Verona), avvenne nel 2016, in concomitanza con il primo arresto. In sei anni il dottor Vincenzo Semeraro, magistrato di Sorveglianza aveva stabilito un rapporto particolare anche se la situazione di Dona era gestita da un altro magistrato, Andrea Mirenda che l’altro giorno ha fatto pervenire le proprie condoglianze ai familiari della giovane. Ma il dottor Semeraro la conosceva da tempo, con lei aveva instaurato un rapporto speciale. E il gesto estremo di quella ragazza fragile a soli 27 anni gli ha lasciato un segno che il tempo non cancellerà.

 

«Quando in carcere muore una ragazza così come è morta Donatela significa che tutto il sistema ha fallito..» è uno dei passaggi della lettera che lei ha inviato a una delle detenute amiche della giovane...

Donatela non aveva un carattere semplice, non facilitava il primo approccio perché opponeva una corazza che invero aveva innalzato per proteggere le sue fragilità, fragilità che derivavano da fatti privati e che l’avevano toccata in profondità. Per questo non si fidava. Ma con il tempo le cose erano cambiate, il rapporto di fiducia è fondamentale, sempre. Io, magistrato di sorveglianza, devo potermi fidare e riuscire a costruire questo rapporto è difficile. Ma con Donatela ce l’avevo fatta, e un gesto così da lei non me lo sarei mai aspettato. Ho scritto che avrei potuto fare qualcosa di più, magari anche solo parlarle 10 minuti in più, mi vengono mille dubbi anche se la disponibilità per lei è sempre stata massima. Non solo da parte mia.

 

Quando dice che il sistema ha fallito si riferisce alla condizione delle detenute, un problema sollevato in questi giorni dalle sue amiche?

Vede, il carcere come istituzione non è pensato per le donne ma per gli uomini, deve contenere violenza e aggressività maschile mentre la possibilità di dare sfogo all’emozionalità femminile non esiste. Quando vado in carcere, dopo il colloquio con i detenuti, faccio la cosiddetta ispezione delle sezioni. Ovviamente è a sorpresa e mentre scelgo a campione una delle sei maschili, ogni volta visito entrambe le sezioni femminili. Parlo con le detenute, adotto quella che chiamo «la terapia della parola», Donatela era venuta tante volte perché aveva voglia di parlare, aveva bisogno di qualcosa. Farò degli accertamenti su alcune circostanze che mi sono state riferite relative a quella disgraziata notte. Però, parlando in generale, credo che quando si parla di vita e di morte intrecciate con la dipendenza i concetti di bene o male vadano rivisti.

 

Tornando alla condizione delle donne in carcere invece?

In 16 anni di magistrato posso riferire di due modelli di istituti differenti. Sono stato a Venezia, è stata una esperienza felicissima tant’è che spesso dico che la Giudecca assomiglia più a un collegio. Non mi fraintenda, è un definitivo, le detenute restano molto tempo e serve impegno. All’interno c’è un laboratorio di sartoria che realizza gli abiti per la Fenice, c’è la lavanderia e stireria per la Marina Militare, hanno un orto biologico e preparano le confezioni di cortesia per l’Hilton. Il rapporto tra il carcere e le cooperative veneziane è fortissimo, cosa che qui manca. Lavoro & Futuro impiega solo gli uomini. È vero, c’è il laboratorio Quid ma ci lavorano 5 o sei detenute. C’è il progetto per il confezionamento delle marmellate e dei sottaceti e Donatela era già stata inserita in quel progetto, avrebbe avuto la possibilità di fare esperienza..

 

Questa mattina lei ha incontrato il papà...

Sì, è un uomo distrutto, come confortarlo? Anche perché non c’è nulla di più innaturale di un genitore che seppellisce un figlio..

 

E Donatela, come la ricorda?

Aveva un carattere non facile, non è stato semplice entrare in sintonia. Firmai io l’ingresso in comunità ma solo perché il collega Mirenda era assente, e sapevo non sarebbe stato un percorso semplice. In carcere la dipendenza viene ”curata” con il metadone, una terapia sostitutiva e troppo spesso quando un detenuto esce torna a cercare le sostanze, mentre in comunità è diverso, ci si deve confrontare con gli aspetti negativi, con la propria fragilità e lavorare su questo. Ogni tossicodipendente è un’isola, il percorso di recupero andrebbe cucito addosso come un abito di sartoria perché in Comunità le regole sono dure, rigide e all’inizio i pazienti sono difficili da trattare. Donatela aveva una corazza per difendersi ed era diventata diffidente. Credo ci siano stati problemi e che abbia avuto una crisi di panico di fronte alla prospettiva di lasciare. Dico questo perché quando rientrò a Montorio, due mesi fa, chiese di parlare con me e si giustificò con la persona che le aveva dato fiducia, era coscienziosa e sentiva la responsabilità di scusarsi. Le dissi che aveva mille possibilità. La conoscevo e non mi faccio scrupolo di dire che mi ero affezionato.

Fabiana Marcolini

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