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Arpav, il processo s’è rovesciato

Archiviate tutte le indagini sull’ex dg Drago e i suoi
«La mia colpa? Non ho accettato soldi per scegliere
un edificio per la sede. E volevano farmela pagare»
L’avv. Andrea Drago
L’avv. Andrea Drago
L’avv. Andrea Drago
L’avv. Andrea Drago

Piero Erle

Era lui il grande “imputato” dell’inchiesta penale: l’avv. Andrea Drago, padovano, allora direttore generale dell’Arpav, accusato per anni anche di aver messo in crisi il bilancio dell’agenzia della Regione. Invece dopo 5 anni ha visto archiviare tutte le accuse. E quella Procura che lo aveva messo sotto inchiesta ha finito col mandare a processo uno dei suoi stessi investigatori, più un costruttore suo amico, per “tentata corruzione“. Secondo i pm volevano corrompere proprio lui, Drago. Ma ha detto no e non gliel’hanno perdonata. È una storia incredibile, che fa leggere sotto una luce completamente diversa anche la vicenda della gestione dell’Arpav.

«HO RIFIUTATO LA TANGENTE». Sono anni che ha dovuto passare in silenzio, Drago. Soprattutto da quando, nel gennaio di quattro anni fa, gli inquirenti gli perquisirono l’ufficio e partì una bufera su giornali e tv che non si placò a lungo, collegata anche alle vicende dei grandissimi timori per il bilancio dell’Arpav. Ma adesso risponde tranquillamente alle domande per raccontare una vicenda che nessuno poteva sospettare. E che nasce dall’esigenza, allora, di scegliere una nuova sede centrale per l’Arpav: «Un affare da 30 milioni di euro». A Drago fu proposto «da un collega avvocato con cui eravamo anche amici» un edificio. Che peraltro aveva destinazione commerciale, quindi non per uffici: «Non aveva i requisiti, ed era una delle offerte più care tra quelle proposte all’Arpav». Il messaggio più o meno sarebbe stato questo: scegli l’edificio, e avrai soldi per te. Non lo scegli, e sono guai. Lui dice noe.

LA TRAPPOLA. L’incubo, per Drago, inizia qui. Perché legato al gruppo che gli aveva fatto pervenire l’offerta ci sarebbe stato anche un inquirente, uno dei dirigenti della polizia giudiziaria del Tribunale. E a muoversi infatti è la Procura padovana che indaga Drago - nel frattempo la Regione aveveva già chiuso il contratto con lui per l’Arpav - in base a denunce anonime e segnalazioni che parlano di tutto (corruzione, concorsi, aste, gettoni di presenza, carte di credito). «Mi hanno costruito addosso un castello di accuse. E il mio problema per anni è che potevo solo cercare di far capire alla Procura quali erano i miei sospetti su tutte queste accuse, senza però ritrovarmi anche querelato per calunnia». Piano piano però la pm Baccaglini arriva a una svolta, e due anni fa iscrive nel registro degli indagati il luogotenente Franco Cappadonna, allora capo della squadra di polizia giudiziaria dei carabinieri in Tribunale, l’avvocato Giorgio Fornasiero e l’imprenditore piovese Mauro Bertani. Fornasiero ha patteggiato la pena di 2 anni e sei mesi, gli altri due sono a processo (c’è un’udienza il 20 ottobre). «E guardi che non è finita qui: la Procura mi ha detto che ho dato loro materiale per anni di indagini. Non mi stupirei che venissero fuori altri indagati».

LA GOGNA. Per quegli anni, però, Drago è stato praticamente indicato come la causa di tutti i guai dell’Arpav. Per gli investimenti fatti, ad esempio, per una barca per lo studio dei fondali («me la chiese la struttura, dicendo che eravamo l’unica Arpav costiera a spendere una fortuna in affitti di barche!») e anche per la nuova sede di Vicenza: «Andate a vedere i bilanci: io non ho speso nulla di fuori posto. La sede nuova di Vicenza l’ho presa con risorse che l’Arpav aveva. Tant’è vero che quella vecchia di via Spalato che l’Arpav ha venduto, anzi secondo me svenduto, ha dato risorse che sono state usate per investire, non per coprire presunti buchi». Si aspetta una riabilitazione politica? «Non mi faccio illusioni. Se qualcuno vorrà notare che sono stato fatto fuori per non essermi asservito a dinteressi economici, apprezzerò molto il gesto».

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