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L'intervista

Il paziente impari
a raccontarsi
E il medico ascolti

Antonio Virzì

VICENZA. Il paziente entra nell’ambulatorio, porge al medico i risultati degli esami precedenti. Dopo averci dato un’occhiata, il medico gli chiede quali siano i sintomi, il paziente li elenca, e comincia la visita.

La scena è molto spesso questa. Cosa manca? L’abitudine, per il paziente, a raccontarsi, ad andare oltre la malattia per spiegare i propri dubbi, le paure, le speranze. E per il medico la disponibilità, oltre naturalmente al tempo, per mettersi in atteggiamento di ascolto. Non ci sono responsabilità specifiche, è il sistema sanitario a far perdere di vista la dimensione umana, che va recuperata con un approccio nuovo ma che viene da lontano: la medicina narrativa. Di questo parlerà questa sera, alle 20.45 nella sede della Fondazione Zoé in corso Palladio, il medico e psichiatra Antonio Virzì, presidente della Società italiana di medicina narrativa. L’incontro fa parte della rassegna “Vivere sani, Vivere bene”, quest’anno dedicata al tema della “Mente in salute”.

 

Professore, cosa si intende con medicina narrativa?

La definizione ufficiale parla di metodica clinica specifica, ma preferisco identificarla come un’idea, un movimento culturale, che punta al recupero della dimensione narrativa nel rapporto tra medico e paziente. Non è un’invenzione, esisteva già in passato, ma gradualmente è stata messa da parte. Ora il paziente non racconta più la propria storia, il medico chiede gli esami e non ascolta.

 

In che rapporto si pone con la medicina ufficiale?

Non è una medicina alternativa, ma complementare. Non bisogna confonderla peraltro con l’anamnesi, che è la storia della malattia. Noi pensiamo invece alla dimensione umana che si sta perdendo. Ci sono altre scuole di pensiero che condividono questa impostazione, quella della narrazione della storia della persona. È vero che i pazienti sono stati diseducati, per cui si limitano a raccontare la storia della malattia.

 

La medicina narrativa sembra però richiedere molto tempo. Come si concilia con l’efficienza chiesta dal sistema sanitario?

L’aziendalizzazione della salute sembra andare contro a questo approccio. Coloro che propongono la medicina narrativa cercano però di dimostrare che dedicare più tempo a tale pratica si traduce in un’efficienza maggiore. Se si parla di più con i pazienti, si spiega loro cosa succede, il perché di determinate terapie, quali sono i rischi, si riduce la possibilità che si vada a finire sulla medicina difensiva, che scatta di fronte alle denunce dei pazienti. Le persone si arrabbiano e denunciano spesso perché non si sentono trattate bene. Ecco perché un approccio diverso può essere utile. I pazienti parlano di noi, ci giudicano. È importante capire come ci vedono dall’altra parte.

 

Può fare un esempio di questo nuovo approccio?

La polemica sui vaccini. La scienza pretende che le si creda solo perché è la scienza a parlare. Ma il racconto di una mamma in lacrime fa molta più presa. Se si cerca in internet, si trovano tanti racconti personalizzati: è chiaro che in un momento di crisi delle istituzioni, un racconto del genere ha molto più effetto rispetto alle parole di un ministro. Anche lo scienziato rischia di apparire poco credibile. E non possiamo liquidare tutti come ignoranti. Se non ci si mette in ascolto, non si capisce quale sia la situazione se non all’ultimo momento, e allora si ricorre all’obbligatorietà. Una testimonial come Bebe Vio, invece, fa più effetto di tante campagne dai termini più o meno incomprensibili.

 

Come si può diffondere l’attenzione per la medicina narrativa?

Con un’opera di sensibilizzazione, parlandone. Ci sono anche dei corsi, dai più specializzati ai più semplici, in cui si insegnano tecniche per codificare la narrazione. È molto utile il ricorso al cinema e alla letteratura. Vedere un film o leggere un testo in maniera guidata, può inoculare il germe dell’autoriflessione, e innescare una sensibilità maggiore.

 

 

Ma questo non viene insegnato nelle facoltà universitarie.

 

Uno degli obbiettivi è trasformare i programmi perché si sia spazio alla medicina narrativa, ancora molto sottovalutata. Che senso hanno 10 ore di cardiochirurgia nella formazione del medico di base? Le farà chi vorrà specializzarsi. Si potrebbe recuperare molto tempo da dedicare al recupero della dimensione umana nel rapporto con il paziente.

 

Ha parlato di letteratura. Quale potrebbe essere un testo utile?

Intanto mi riferisco alla letteratura non scientifica, quella che parla dell’uomo e non della malattia. Un esempio? Il “Mastro don Gesualdo” di Verga: è molto interessante la figura di Gesualdo malato, il modo con cui si rivolge ai medici. Leggerlo può essere una sorta di rivelazione.

 

A proposito di narrazione, cosa pensa delle serie televisive di argomento sanitario?

Di solito mi rifiuto di guardarle, se sento parlare unicamente di malattie e di malati sono l’ultima cosa che vorrei vedere. Anche perché il modello anglosassone che si vede nelle serie statunitensi è molto diverso dal nostro, si crea una distonia tra la realtà delle nostre corsie e quella delle serie televisive. Diverso il caso di serie italiane, come “Braccialetti rossi”, che si avvicinano di più alla realtà. Si rischia comunque di creare aspettative nel paziente, che poi non trovano riscontro.

 

Anche il paziente va educato a raccontarsi?

Sì, perché è stato disabituato a farlo. Quando va sui dati personali viene bloccato. È tempo di recuperare.

Gianmaria Pitton

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