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L'intervista

«I Pfas fanno aumentare il colesterolo. E il rischio infarto raddoppia»

Il professore Carlo Foresta svela il nesso tra sostanze e malattie. «Ora serve capire come eliminarle in fretta dal corpo»
Il professore Carlo Foresta, è autore di uno studio sui Pfas coi colleghi dell’Università di Padova Alberto Ferlin e Nicola Ferri
Il professore Carlo Foresta, è autore di uno studio sui Pfas coi colleghi dell’Università di Padova Alberto Ferlin e Nicola Ferri
Il professore Carlo Foresta, è autore di uno studio sui Pfas coi colleghi dell’Università di Padova Alberto Ferlin e Nicola Ferri
Il professore Carlo Foresta, è autore di uno studio sui Pfas coi colleghi dell’Università di Padova Alberto Ferlin e Nicola Ferri

«C’è una correlazione tra Pfas e colesterolo alto. Ecco perché il rischio di infarto in chi abita nelle zone inquinate da queste sostanze aumenta». Carlo Foresta, professore ordinario di endocrinologia all’Università di Padova di cui è studioso senior, anche membro del Consiglio superiore di sanità e presidente della Fondazione Foresta onlus, ha firmato un’altra ricerca sui Pfas, in collaborazione con Alberto Ferlin, ordinario di endocrinologia, e Nicola Ferri, ordinario di farmacologia, che è stata pubblicata sulla rivista internazionale “Toxicology Reports”.

Professore, qual è il nesso tra queste sostanze e il rischio cardiovascolare?
Il nostro studio svela il meccanismo attraverso il quale Pfoa e Pfos, i più diffusi composti della famiglia dei Pfas, interferiscono con il processo di assorbimento da parte delle cellule epatiche del colesterolo dal sangue. In pratica, questi inquinanti inibiscono la membrana delle cellule del fegato ostacolando il normale assorbimento di colesterolo. Ecco perché i livelli circolanti nel sangue aumentano.

E cosa comporta questo?
L’ipercolesterolemia è il principale fattore di rischio per le cardiopatie ischemiche, prima causa di morte tra le malattie cardiovascolari. Questa ricerca è stata condotta sulla popolazione residente in zone contaminate dai Pfas in Veneto e mostrano che la percentuale dei soggetti con elevati livelli di colesterolo nel sangue, nella fascia di età compresa 35 e 75 anni, è più del doppio rispetto alla popolazione generale di controllo (circa 57% contro 22%). 

Foresta, lei e il suo team di ricercatori siete partiti a studiare gli effetti dei Pfas sulla fertilità. Come è arrivato a interessarsi del colesterolo?
L’interferenza con la produzione di testosterone è stata la prima cosa balzata ai miei occhi. Poi ci siamo chiesti come i Pfas agiscano anche sugli altri organi. C’è condivisione tra i diversi studi epidemiologici sugli aspetti materno-fetali, fertilità, tireopatie, e riduzione della risposta immunitaria. 

Dalle sue analisi effettuate sulla popolazione contaminata in Veneto, cosa emerge?
Negli ultimi 5 anni i nostri studi hanno permesso di identificare altri importanti meccanismi. Ad esempio, come questi composti riducano l’attività biologica del testosterone attraverso l’interferenza con il suo recettore. Abbiamo dimostrato che si legano alle membrane degli spermatozoi limitando la motilità e quindi la fertilità. Per quanto riguarda la poliabortività i Pfas riducono l’attività del progesterone a livello endometriale alterando quindi la capacità dell’endometrio di accogliere l’embrione e di supportarne lo sviluppo. 

C’è uno studio che riguarda anche gli effetti negativi sulle ossa?
Sì, stiamo lavorando ad una ricerca, finanziata dalla Regione Veneto, che punta a capire il meccanismo di riduzione di assimilazione della vitamina D e quindi l’assorbimento del calcio che comporta un indebolimento della struttura scheletrica, l’osteopatia. 

E adesso quali altri studi?
Intanto, muovo una critica alla sanità mondiale: abbiamo capito quali effetti devastanti abbiamo sugli organi queste sostanze. Ora serve studiare come eliminarli dal corpo. 

Nella vita quotidiana veniamo a contatto in mille modi con queste sostanze. Come proteggerci? Eliminando pentole antiaderenti o cartaforno?
La riduzione dell’inquinamento ambientale è sicuramente il punto fondamentale, ma rimane il grosso problema della lunga permanenza di queste sostanze nell’organismo: si accumulano in particolari organi (fegato, scheletro, sangue) in alcuni casi anche fino a 10 anni.

Per la popolazione esposta del Veneto, quindi, non basta aver smesso di bere acqua inquinata per ridurre i rischi in modo quasi immediato?
Assolutamente no. Eliminare la fonte non basta. Anche perché, ripeto, il problema riguarda tutti: a livello internazionale si sono studiate le conseguenze di queste sostanze sulla popolazione generale tenendo conto del contatto in una vita normale. E i dati mostrano un accumulo, seppur a concentrazioni più basse rispetto ai residenti della zona rossa. Le conseguenze, però, sono terribili a qualsiasi concentrazione. Ecco perché ora si deve passare a un livello successivo: come abbassare il tasso plasmatico di queste sostanze? Non c’è ancora nessuna possibilità di intervenire per abbattere i Pfas: serve trovarne una». 

Cristina Giacomuzzo

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