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Era il 2006

L’ovazione del Bentegodi per Benedetto XVI: in 40 mila allo stadio

Ratzinger: «Nessuna forza avversa potrà mai distruggere la Chiesa»
Papa Ratzinger allo stadio Bentegodi nel 2006
Papa Ratzinger allo stadio Bentegodi nel 2006
Papa Ratzinger allo stadio Bentegodi nel 2006
Papa Ratzinger allo stadio Bentegodi nel 2006

Vi proponiamo un articolo pubblicato il 20 ottobre del 2006, quando Papa Ratzinger venne in visita a Verona

 

«Tutti pazzi per Papa Ratzy» recita uno striscione in curva sud, senza preoccuparsi troppo se il diminutivo assomiglia a una delle parole italiane più conosciute e universalmente usate nel mondo, «paparazzi». Ma, per parafrasare un altro celebre proverbio, i veronesi non è che siano proprio diventati «tuti mati» per Benedetto XVI.

Quelli che sono allo stadio, però, 40 mila con i rinforzi giunti dalle province limitrofe, accolgono l’ingresso del Pontefice con la papamobile dalla porta Maratona con un tifo da stadio, tanto da costringere lo speaker ufficiale a richiamare i presenti a ritrovare un po’ di compostezza e di concentrazione per l’inizio della cerimonia. L’incontro tra una città tutto sommato fredda, capace di pochi entusiasmi, e il papa algido come i suoi capelli di ghiaccio poteva essere ad alto rischio, invece il popolo dei fedeli veronese riserva a Ratzinger una bella sfilza di applausi, interrompendo l’omelia per una ventina di volte, a sottolinearne i passaggi più significativi. La vera ovazione della « Verona fidelis», tuttavia, è per il proprio vescovo, padre Flavio Roberto Carraro, visto come l’artefice primo dell’evento che ha portato il Papa in riva all’Adige.

Nel passaggio dei ringraziamenti comunque ci sono battimani più o meno intensi anche per il segretario della Cei monsignor Betori, colpito da grave malore proprio alla vigilia del Convegno, e per il cardinal Tettamanzi, per la comunità veronese nel suo insieme e persino per le autorità politiche e i giornalisti. Per tutti, o quasi. Il silenzio - chissà perché? - accoglie infatti soltanto il nome del cardinal Camillo Ruini, che proprio oggi chiude il convegno e forse con questo atto darà l’addio alla presidenza della Cei.

 

 

L'omelia al Bentegodi gremito

Nella sua predica Benedetto XVI si tiene lontano dai temi sociopolitici affrontati in mattinata (e di cui riferiamo in altra parte del giornale) e parla come un vecchio saggio pastore che spiega dottamente il senso delle letture bibliche del rito che sta officiando, sottolineando come siano state scelte proprio perché «illuminano il tema del convegno: “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”». Eccolo allora illustrare il significato della prima lettera di San Pietro e del Vangelo, citare gli Atti degli apostoli e Sant’Agostino e chiudere con le parole del profeta Isaia: «Portate il lieto annuncio ai poveri, fasciate le piaghe dei cuori spezzati, proclamate la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri... Ricostruite le antiche rovine, restaurate le città desolate».

Un invito esplicito ai cristiani a diffondere «nel mondo e per il mondo» la speranza di Dio, forti di due certezze, che «nessuna forza avversa potrà mai distruggere la Chiesa» e che «in un mondo che cambia, il Vangelo non muta». E che i cattolici sono «gli eredi dei testimoni vittoriosi, martiri, santi beati, che hanno lasciato tracce indelebili in duemila anni di storia cristiana».

 

Il passaggio della Papamobile in piazza Bra
Il passaggio della Papamobile in piazza Bra

 

L'incontro con i fedeli cauto, razionale, controllato

Benedetto XVI è un papa di certezze. Un papa che parla alle menti, fa ragionare, ma non scalda il cuore e nemmeno trascina la gente come faceva il suo predecessore Giovanni Paolo II. Non ama l’applauso. Non lo cerca né lo provoca nell’eloquio, lo tronca se lo sente fuori luogo o troppo lungo. Anche il suo modo di avvicinarsi ai fedeli è rattenuto, controllato, razionale. Dopo i saluti calorosi di padre Flavio, all’inizio della messa, si alza dal proprio scranno e gli va incontro. Tutti si aspettano un abbraccio, invece il massimo dell’effusione è una stretta di mani e l’accettazione di un bacio sull’anello papale da parte del vescovo.

Quando scende dalla papamobile al centro della pista di atletica e tra due ali di folla, sotto i cori, i canti, e gli applausi dei 40 mila si avvia alla «sacrestia» predisposta negli spogliatoi per indossare i paramenti sacri, afferra molte mani protese verso di lui, alza le braccia e stringe in alto le dita nel gesto di preghiera, ma si capisce che è come se si sforzasse di non cancellare del tutto le modalità introdotte nella gestualità da Karol Wojtila, perché il suo modello ideale è la ieraticità. È anche un papa «liturgico», nel senso che, sulla scia del maestro veronese, il teologo e filosofo Romano Guardini, considera la liturgia un elemento essenziale dell’estrinsecazione della preghiera.

 

Piccolo di statura, gigante nel ruolo affidatogli

Ama le formule recitate e cantate in latino, come si è potuto sentire tanto ieri mattina che ieri pomeriggio, e persino nella disposizione del clero nella cerimonia allo stadio lancia dei messaggi. Lui tutto solo, piccolo nella statura, gigante nel ruolo che gli è affidato, al centro dell’altare, con la casula verde speranza (parola chiave del convegno) più viva e brillante di quelle del medesimo colore dei vescovi e dei cardinali, collocati a fargli ala su un piano rialzato ai due lati del palco sopraelevato, la cui posizione apicale resta occupata da lui.

Più in basso, come due ali di un’immaginaria colomba biblica, tutti vestiti di bianco, da una parte l’intero corpo sacerdotale della diocesi, dall’altra i preti e i religiosi che stanno partecipando ai lavori del convegno. L’autocontrollo, come al mattino avevano mostrato i maxischermi all’assemblea plenaria del convegno, c’è persino nella mimica facciale, ferma e immobile, quasi inespressiva nei muscoli del volto, con solo gli occhi mobilissimi per scrutare chi parla o seguire il filo dei propri pensieri.

Papa Benedetto, d’altronde, fin dalla scelta del nome vorrebbe essere un pontefice monaco, dedito all’«ora et labora», alla preghiera e al lavoro, che nel suo caso è ed è sempre stato squisitamente intellettuale, pur se quando è il caso non si nega all’incontro con i fedeli. Come ieri. E ci va fiducioso, anche se, dato che «mala tempora currunt», persino quando percorre con i paramenti la corsia rossa che attraversando tutto lo stadio porta al palco con l’altare, sia in andata che al ritorno, a camminargli fianco a fianco non ha soltanto il cerimoniere vaticano e il suo segretario Georg Genswein, ma anche allertatissime guardie del corpo. E tra tanti fazzoletti multicolori sventolati in sue onore, sopra il cornicione della curva sud, spuntano le sagome nere di due tiratori scelti armati di binocolo e fucile per sorvegliarne l’incolumità.

 

Tra preghiere e tifo da stadio

Alla fine, dopo che il Pontefice è uscito tra i cori scanditi «Be-ne-det-to Be-ne-det-to», ritmati dai clap clap degli applausi a tempo, l’incidente politico, con i fischi a Prodi e gli applausi a Berlusconi (peraltro in parte fischiato anche lui al suo ingresso in campo dalla scala degli spogliatoi) di una parte del pubblico. Forse è il fatto di essere dentro uno stadio a far dimenticare che si è ancora in un luogo che la presenza del Papa e la messa hanno reso sacro. Per costoro l’alto messaggio spirituale del Pontefice è già messo in soffitta. Le preghiere dei fedeli dedicate ai temi caldi del convegno, la sofferenza e la fragilità della vita, la famiglia come luogo privilegiato di crescita nell’amore, la complessità dei rapporti economici, le fatiche del lavoro e le difficoltà della festa, la politica perseguita per il bene comune e «non per interesse personale» (come ha detto il Papa nel suo intervento mattutino), gli ostacoli crescenti alla diffusione del messaggio cristiano, sono già cancellate. Per fortuna sono pochi. Molti di più sono quelli che se ne vanno confortati nella loro fede o interrogandosi su questioni cui nemmeno gli Stati Generali della Chiesa Cattolica italiana riescono a dare risposta.

Giancarlo Beltrame

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