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Giuseppe Faresin

I viaggi per aiutare chi soffre

Giuseppe Faresin sul suo kayak durante la discesa del fiume Yukon, in Alaska
Giuseppe Faresin sul suo kayak durante la discesa del fiume Yukon, in Alaska
Giuseppe Faresin sul suo kayak durante la discesa del fiume Yukon, in Alaska
Giuseppe Faresin sul suo kayak durante la discesa del fiume Yukon, in Alaska

C’è un beneficio a scivolare con la canoa lungo i fiumi del pianeta. C’è l’opportunità di osservare il mondo lentamente, accorgendosi dei dettagli, delle sfumature, dei volti, degli odori. E, questo, alla fine, è l’elemento che fa la differenza tra la solidarietà dichiarata e solidarietà concreta.

Lo sa bene il sandricense Giuseppe Faresin conosciuto come l’“uomo kajak” che l’8 dicembre sarà ospite alla “Diretta del cuore” su Tva. Ogni sua spedizione è un’avventura, ogni avventura un capitolo di un libro in divenire, ogni capitolo un’occasione di solidarietà. «Ho sempre cercato di offrire a ogni impresa uno spessore che andasse oltre il racconto di un’esperienza e che superasse la fatiche e i rischi individuali» spiega mentre si trova all'aeroporto di Copenaghen in attesa di imbarcarsi per ragioni di lavoro sul primo volo utile per Helsinki. «Spesso – continua – le mie spedizioni toccano luoghi nei quali la sofferenza e la povertà sono declinate in aspetti immaginabili, alle volte violenti, ed entrambe sono in qualche modo organiche a una natura che ritengo necessario preservare. Questa è la ragione per cui mi impegno a sostenere ad ogni avventura una onlus o una no profit. Ed ecco perché quest’iniziativa, “Insieme per la Vita”, sposa quella vicinanza agli altri che è carattere fondante di questo territorio». Dal Rio della Amazzoni in Sud America al fiume Yukon in Alaska (ultima sua impresa) Faresin si è speso per «vivere emozioni e raccogliere», non sempre in questo ordine, «le necessità degli altri».

«Ben prima degli albori delle mie esperienze di viaggio – ricorda – ho maturato la convinzione della necessità di aiutare coloro che non hanno e spesso non avranno mai le opportunità che il mondo occidentale offre. E ho maturato questa azione nel momento in cui il benessere raggiunto mi ha permesso di accorgermi delle macro differenze e delle disuguaglianze». Un pensiero, quest’ultimo, che Faresin – self made man, come dicono gli anglosassoni – traduce in una definizione pragmatica della solidarietà. «All’inizio – spiega – mi affidavo alle “grandi” organizzazioni. Grandezza che poi ho scoperto esaurirsi spesso nella complessa struttura amministrativa, nell’organizzazione elefantiaca e in alcune modalità di vita dei suoi componenti». Poi «ho riscoperto il valore della vicinanza osservando come alcune organizzazioni “minori” realizzassero progetti importanti senza riflettori mediatici al seguito – continua – ma soprattutto il valore che l’aiuto migliore è quello che abbraccia l’idea di battere credenze popolari che influiscono negli aspetti sanitari, quello che porta aiuti materiali senza però indugiare in una sorta di assistenzialismo, quello che insegna. Anche in materia di solidarietà la cultura, nella sua accezione più ampia, è fondamentale». Negli occhi di Faresin scorrono non solo le immagini degli angoli del mondo che più soffrono la povertà e i frutti avvelenati del consumo predatorio delle risorse, ma anche i fotogrammi delle necessità del territorio, in particolare sotto il profilo dell’integrazione dei servizi essenziali nel campo della sanità. «Si può fare molto anche qui – sostiene –. Ci sono molte associazioni che si occupano di assistenza alle persone con fragilità, malati o non più autosufficienti. E qui l’anagrafe spesso non è l’elemento più critico».