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LA SAGA Tre amministrazioni e continui colpi di scena nella cronologia del “restauro infinito”

L’allarme nel 2014. Le liti e poi la ripartenza

Una lunga scia di carte bollate aveva portato i lavori in un vicolo cieco Con il cambio dell’impresa efficienza ritrovata senza più alcun intoppo Enrico Saretta Più che assomigliare a una telenovela, nel corso degli anni la storia del restauro del Ponte degli Alpini ha assunto le caratteristiche di una delle più moderne serie tv. Un ritmo incalzante, con stravolgimenti e colpi di scena praticamente all’ordine del giorno. Nel mezzo, protagonisti e comprimari, ciascuno dei quali, di questo va dato atto, ci ha messo sempre la faccia. Anzi, c’è chi c’aveva messo anche la canoa, come quella del barbiere Ilario Baggio, che nel 2014 nelle sue scorribande sul Brenta si era accorto che qualcosa in quei piloni non andava. Risale a quel momento il primo allarme sulle condizioni del Ponte. Già con l’amministrazione Cimatti erano quindi partite le prime indagini, per arrivare poi con l’amministrazione Poletto al progetto vero e proprio e all’avvio della grande lotta Comune-Vardanega. Dopo che nel 2015 i tecnici del Comune e gli esperti di Padova, riscontrati i gravi pericoli di stabilità, misero nero su bianco il loro progetto, il Comune diede il via alla gara d’appalto. Per un’opera da 4 milioni di euro circa, che faceva gola a molti e su cui erano piovuti finanziamenti pubblici, a partire da Ministero e Regione. Alla fine del 2015, ad aggiudicarsi i lavori fu la Vardanega di Possagno, prima classificata. Vento in poppa e via, si pensava, ma qualcosa si inceppò: l’aggiudicazione era provvisoria e servivano altre carte per dare il via libera. Si trattava di documenti dell’Anticorruzione: semplici pratiche burocratiche, in teoria, ma in realtà la questione era più seria e a darne notizia fu lo stesso imprenditore trevigiano, che da quel momento sarebbe diventato una presenza fissa nelle cronache bassanesi. A metà febbraio 2016 Giannantonio Vardanega annunciò che il Comune gli aveva ritirato l’appalto e che era pronto a fare ricorso. I tecnici comunali, infatti, nutrivano riserve sull’“avvalimento” (collegamento) con una ditta di Caserta che in caso di necessità avrebbe dovuto subentrare nei lavori, ma che in realtà aveva dimostrato di possedere ben pochi mezzi per affrontare un cantiere del genere. Poi la questione si spostò nei tribunali amministrativi, e alla fine ebbe la meglio fu proprio la Vardanega, che fu reintegrata nei lavori. Che nel frattempo, però, per un breve lasso di tempo, a maggio 2016, erano stati assegnati alla Inco di Pergine, seconda classificata nella gara d’appalto. Il cantiere, finalmente, ripartì con Vardanega. Ben presto, però, si capì che più che le stilate la sola cosa che sarebbe stata sollevata sarebbe stata la terra delle ture, in un gioco allucinante di “metti la tura, togli la tura” per un cantiere che, quanto a restauro, progrediva ben poco. L’impresa contestò a lungo molti aspetti del progetto finché il Comune disse basta e attivò la procedura di risoluzione contrattuale. Ma qui Vardanega a giocare d’anticipo e annunciò l’addio di sua iniziativa, tra maggio e giugno 2018, affermando che il progetto era impossibile da realizzare e polemizzando sul danno d’immagine provocatogli da tutta la vicenda. Intorno a lui, in quei mesi, in città, si era coagulato un eterogeneo fronte di contestatori del progetto redatto dallo studio del guru Claudio Modena su istruzioni dellle accuse, a Soprintendenza, reo soprattutto, secondo di non aver previsto la disponibilità di tutte le aree del cantiere (in primis le spalle Nardini) e persino del legname. Magicamente, però, non appena nel novembre 2018 subentrò nuovamente la Inco, il legname fu trovato e le spalle non servirono nemmeno più. Il resto è storia recente. Il cambio di amministrazione vide Poletto e i suoi consegnare all’esecutivo di Elena Pavan un’opera che ormai procedeva spedita. Ora è arrivata la firma, e, più che la politica, meritano di scriverla tutti i bassanesi.

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