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IL RITO DEL MENTI

Le figurine che diventano realtà. Un inno cantato dalle Parterre

Che il tifo biancorosso sia una malattia inguaribile e complicata, lo capii a neanche otto anni. Di quel pomeriggio al Menti ricordo gli improperi di quanti, al bar sotto la tribuna centrale, ce l’avevano su con un certo Lerici, e io mi chiedevo chi fosse mai quel reo, quali crimini avesse commesso. Tabellini alla mano, era il 28 gennaio 1962. Una maledetta domenica in cui il Lane perde in casa (0-1) con l’Atalanta e, in capo a poche ore, la società presieduta da Pietro Maltauro esonera - assai a malincuore - il buon Roberto Lerici, già nostro bravo giocatore negli anni ’50 e ora diventato allenatore del Vicenza, premiato col Seminatore d’Oro nella stagione precedente. Gli subentrerà il vice, un certo Manlio Scopigno, che più avanti Nevio Furegon battezzerà come “il filosofo”. Serie A d’altri tempi Spiegare cosa fosse il Menti della Serie A negli anni Sessanta è facile e difficile al tempo stesso: come riassumere l’Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia. Da un lato, rivedi il vecchio Vinicio cuor di leone che, a fine partita, rientra negli spogliatoi esausto sulle gambe arcuate, “bianco come ‘na strassa”, ma intanto è stato capace per l’ennesima volta di buttarla dentro di collo-punta, di tacco, di testa, o sganciando uno di quei suoi missili su punizione dalle stravaganti traiettorie. Dall’altro lato, riaffiora alla mente l’ineffabile Tussa, folletto senza età, che parte dalle Canove Vecchie impugnando la bandiera biancorossa, raggiunge il Menti e non la smette di correre attorno a tutto lo stadio finché, una ventina di minuti prima del fischio finale, gli addetti ai cancelli benevolmente aprono i varchi (mentre chiude un occhio Bepi Luce, custode e magazziniere) lasciando entrare per gli ultimi minuti la piccola folla (ragazzini dei rioni popolari, o qualche adulto senza schei) rimasta fin lì in fervida attesa di “quel” momento, indovinando intanto il risultato dai boati e dalle radioline di “Tutto il calcio minuto per minuto” condotto da Roberto Bortoluzzi. Un rito domenicale Erano i tempi in cui il genitore o il nonno accompagnavano “al calcio” il piccolo di casa e, fermandosi al bar durante il tragitto, ordinavano “un bianco par mi e ‘na spuma par el bocia”. Erano i tempi in cui non trovavi negozi con gadget da supporter, al massimo qualche bancarella con vessilli artigianali e cuscinetti-sedili spugnosi da aprire a libro; perciò, il corredo biancorosso era affidato all’abile sferruzzare delle donne di casa che sfornavano metri di lana bicolore destinata a sciarpe, muffole e berretti col pon-pon per ripararsi dal freddo becco (che gli adulti combattevano anche con scorte di bottigliette mignon di liquore). D’estate, per salvarsi dal sole, c’era il cappelletto a bustina ricavato piegando, dopo averli letti, i giornali che venivano distribuiti agli ingressi: una carta adatta, piuttosto rigida, ce l’avevano “Sport Vicenza” di Claudio Noaro e “Il sospiro del tifoso” di Pino Dato. L’attesa era scandita dagli annunci pubblicitari dello speaker, che reclamizzava il “Bulova Accutron, l’orologio dell’era spaziale” o l’Autosalone Peugeot (ma lui pronunciava Pezó), e una serie di brandy, dal Cavallino Rosso a quello Stock 84 con il quale brindare o consolarsi a seconda se la squadra del cuore avesse vinto o perso (slogan che in me lasciava aperta una domanda: e se ha pareggiato?); verso l’inizio, venivamo regolarmente informati che “i fiori alla squadra ospite sono offerti dalla Fioreria Pasqualin” (poi Zambonin) e intanto il brusio cresceva fino a quando qualcuno, sugli spalti, non emetteva l’urlo di rito: “Ècoli!” (variante più paesana: “Ècui!”), a indicare l’entrata in campo dei giocatori. Sì, quelle due file indiane che ti mettevano addosso i brividi perché, se da una parte scalpitavano i nostri eroi, dall’altra uscivano dal tunnel e si materializzavano, in carne e ossa, le figurine Panini più celebri: ecco Rivera e Mazzola, Sivori e Del Sol, Hamrin e Haller, Juliano e Altafini, con le loro maglie rossonere, neroazzurre, bianconere, violagigliate, rossoblù, giallorosse, biancocelesti, azzurre, granata… A fine partita, i commenti della tifoseria proseguivano nelle osterie, nelle trattorie, spesso sedi di club con nomi indimenticabili (Abbondanza, Polenta e Bacalà, Stanga, Cursore, Cuccarolo, Fojèta, Magheto, Flavia, Pergoletta…), mentre per certi appassionati del centro storico la tappa d’obbligo era sotto i portici del Corso al bar Santa Corona, che esponeva i risultati della schedina e, soprattutto, all’esterno issava un bandierone del Lanerossi Vicenza con appiccicato, sulla parte alta dell’asta, un gatto soriano rampante, assolutamente autentico e assolutamente imbalsamato. Giovanin, il supertifoso Tornando al Menti di quel ventennio in serie A, il mio posto di “bocia” era nel digradante parterre in cemento sotto la tribuna, dove ovviamente si stava in piedi: più crescevo in altezza, meno dovevo sforzarmi per riuscire a vedere tutto il campo, anziché contentarmi di osservare i calzettoni dei calciatori che mi sfrecciavano davanti. In quel luogo stazionava anche il supertifoso Giovanin Dal Maso, con la sua indimenticabile facciona da gnomo affumicato e il suo immutabile pronostico, che non lasciava scampo agli avversari: “Ancó a ghe démo dò péri!”. Sicché, dopo un gol del Vicenza, si girava beato verso gli astanti strizzando l’occhiolino e facendo sporgere a intermittenza la rosea punta della lingua da un angolo della bocca, operazione che gli riusciva agevole vista la totale e spensierata mancanza di denti. Se invece finiva male, estraeva dalla tasca il fazzoletto tabaccone e, con un pudore che allontanava qualsiasi tentativo di presa in giro, si asciugava una lacrima strizzando il nasone nella certezza che, la volta prossima, i suoi “tósi” non lo avrebbero tradito. Un giorno, l’applauso del Menti fu tutto per lui: il presidente Giussy Farina, che lo considerava una mascotte portafortuna, prima della partita volle premiarlo con diploma e una piccola medaglia assieme a un altro Farina, il Giorgio patron del club Bar Abbondanza: fu una delle rare occasioni in cui Giovanin si tolse il cappello, perché entrare sul prato del Menti, per lui, era come entrare in chiesa. Vicino gli stava di solito un tizio rotondetto, stempiato, che a ogni ingiustizia arbitrale (vera o presunta) scattava in avanti per abbarbicarsi alla rete metallica e prodursi in sputacchi di mirabolante gittata, specie quando in giacchetta nera giostrava il signor Concetto Lo Bello di Siracusa, divo del fischietto e castigo delle “provinciali”. Ecco, io sono cresciuto su quegli scalini là, alle spalle delle panchine, oggi scomparsi. Allungando il collo per anni e per anni accompagnato da papà Walter, fortunato possessore d’una “tessera di servizio” da funzionario comunale (quindi gratuita) dove, chissà per quale dono del destino, la società calcistica del Lanerossi non aveva stampigliato la stagione di emissione, sicché tornava buona a ogni campionato!

Lane 120 continua. Nei prossimi giorni nuove storie e personaggi che hanno scritto la storia del club biancorosso.