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ROBERTO BAGGIO

L’ideale applicato al calcio. E Vicenza si accorge del bocia

Roby Baggio non è che l’ideale applicato al campo da gioco, capace com’è stato di sconvolgere la norma con un solo tocco di piede. Quattro sillabe, quasi un tetragramma, quello di un semidio sceso in terra coi tacchetti – fragile, sfuggente, con lo sguardo che cerca riparo tra le punte degli scarpini quando viene assediato da una mandria di fotocamere morbose. È così fin da ragazzo, quando con le sue giocate dà ai primi spettatori l’impressione di essere difronte a qualcuno dal destino eccezionale.

Quello del Roberto Baggio calciatore comincia nei primi anni ’80, con un meravigliato passaparola. Accade infatti che il dottor Binda, medico sociale del Lanerossi, venga a sapere che nei campetti di Caldogno si aggira un tredicenne dal piè veloce, che non ci si può lasciar scappare. Ammaliato dalla tecnica del ragazzino, Binda lo segnala in società; così Baggio viene convocato per un provino, dove gli bastano 15 minuti per mettere a segno una doppietta e assicurarsi il tesseramento nel club berico. Savoini, suo allenatore delle giovanili, dirà di lui che «aspettava solo un cenno, una frase, un’idea, che poi avrebbe completato in campo con quello che passava per la testa». Fosse anche un ostinato uno contro uno col portiere, in cui, invece di calciare, tenta un ultimo, incosciente pallonetto, col desiderio spasmodico di spingersi in porta col pallone; con l’estro del genio che disegna autostrade nei vicoli ciechi.

Che negli Allievi sia sprecato è ovvio, tuttavia il regolamento vuole che fino ai sedici anni Roberto non possa scendere in campo coi grandi. Poi, nel 1984, mister Giorgi lo inserisce in prima squadra, dove gioca per due stagioni in serie C. Il primo anno con sole sei presenze, nella stagione successiva come titolare inamovibile.

La città si accorge allora del suo enfant prodige, esile ma potente, dai tratti vagamente caravaggeschi, che esulta sempre con pudore. Roby che corre palla al piede è un pennino che alle volte traccia sul campo i più improbabili corsivi, e alle volte appare mostruosamente lineare nel prendere palla dalla difesa per poi lanciarsi senza sosta verso l’area opposta. Con l’eleganza del fuso che ruota su se stesso, col medesimo colpo secco del cavatappi che stappa il sughero: una carezza sul cuoio della sfera, e via, a sgattaiolare lungo la fascia, una volta ancora.

«Avevo solo un pensiero, prendere la palla e andare dritto in porta», e tanto gli basta a sprigionare una quantità folgorante di bellezza inspiegabile, con cui si eleva dal mucchio dei discreti operai del pallone. Fin dai primi dribbling lungo il Bacchiglione, Baggio è l’Inafferrabile sceso sul rettangolo verde, un sonetto dettato dalla dea Eupalla, capace di scardinare le metriche balbettanti dei difensori; con quest’ultimi arrivati magari a vent’anni di onorata carriera per ritrovarsi gambe all’aria dinnanzi alle prodezze di quel giovane alieno dai capelli riccioluti e ancora selvaggi. Sono il segno distintivo del prodigioso, quei riccioli, che gli valgono il soprannome di “cavreta”, forse anche per i balzi, le incornate, la grazia fulminea con cui attira su di sé l’attenzione degli avversari, permettendo a Rondon, sua chioccia, di smarcarsi e capitalizzare gli assist in totale solitudine davanti al portiere. Nell’85 Baggio segna 12 gol in 19 partite e viene insignito del Guerin d’Oro come miglior giocatore di categoria. Giornalisti e professionisti del mercato cominciano ad accorgersi di lui, che pure resta pacato nelle interviste, in cui confessa la propria vita sobria – «in discoteca non ci vado mai», quasi fosse un peccato mortale – e un’educazione d’altri tempi (ai vecchi corsari di spogliatoio persiste a dare del “lei”). Incalzato sul suo avvenire afferma che è «difficile imitare i grandi campioni, cerco solo di fare del mio meglio e di restare me stesso», riflettendo l’etica di papà Florindo (quella dell’onestà assoluta, della professionalità rigorosa), nonché la schiettezza predicata come Verbo dalla gente del posto: umiltà, sacrificio, parole centellinate ed essenziali.

Quando a stagione in corso la Fiorentina gli strappa un accordo a quasi tre miliardi di lire, il Baggio diciottenne, interrogato sul suo futuro viola, si limita a dichiarare: «Spero solo che mio padre mi conceda qualche ora di riposo in più», come se non si rendesse conto che quella del fantasista in massima serie è una professione che non lascia tempo per il lavoro in carpenteria.

Tra Baggio e la serie A, però, c’è una promozione in B da conquistare con il Lane. La partita decisiva, specie per la sua biografia, è il 6 maggio, contro il Rimini. Roby segna subito, come da copione, ma dopo 4 minuti ecco il patatrac: nel tentare una scivolata, la gamba compie un gesto innaturale che manda fuori posto crociato, capsula, collaterale e menisco. Un infortunio oggi gravissimo, all’epoca l’anticamera del ritiro, che tuttavia viene scongiurato dalle cure mediche di cui la Fiorentina si farà carico, prelevandolo comunque dal Vicenza e spedendolo in Francia per una riabilitazione delicatissima.

Il resto della sua carriera è storia. Nel frattempo a fine stagione il Lane ottiene il ritorno in cadetteria. Nei filmati di allora si vede un Baggio festante a bordocampo, in abiti civili, zoppo, portato in spalle come si portano gli eroi. Un eroe senza eccessi, consapevole di avere tra i piedi la leggerezza di un arcangelo, e la sentenza balistica di un dio del pallone rigoroso e severo, in primis con se stesso.

Immortalato da vecchie telecamere, quell’adolescente implacabile evoca in noi, ad ogni scatto, un’ansiosa meraviglia; e ci ritroviamo come d’incanto ancora appesi ad un altro dribbling, che invochiamo da quelle immagini sgranate con la stessa ebbrezza con cui gli ubriachi reclamano un brindisi. Come se ogni suo gesto fosse un abbaglio nel caos; e quella nostalgia che si prova nel rivederlo in azione nient’altro che la consapevolezza di aver assistito all’epifania di un’icona cristallina, luminosa, e – terribile sospetto – del tutto irripetibile.

Andrea Mainente