MIMMO DI CARLO

«Fame e motivazioni. Non avevamo paura»

Nove stagioni con la maglia biancorossa e 268 partite (6° assoluto per presenze), una vita da mediano correndo da tutte le parti, a marcare e a proporsi in avanti all'occorrenza, tanto da segnare pure 9 reti.

Da dove si può iniziare a raccontare Mimmo Di Carlo?
Da quando giocavo altrove e in tv vedevo il Menti ancora coi vecchi parterre: era sempre un'emozione vedere il campo su cui avevano giocato Rossi, Baggio, Campana... Arrivare qui era già un obiettivo. Pian piano conobbi anche la gente e le sue caratteristiche, come l'attaccamento tenace e sanguigno di un'intera provincia ai colori biancorossi.

Iniziò con Caramanno in panchina...
Un tecnico dalla visione moderna che ha vinto molto in C prediligendo un gioco propositivo con cui ha sempre fatto giocare bene le sue squadre. A Vicenza portò bravi giocatori provenienti da categorie inferiori che molto probabilmente non seppero esprimere quanto aveva in mente.

Vennero poi Ulivieri e Guidolin.
Col primo costruimmo, col secondo osammo. I successi nacquero dall'impronta di Ulivieri che seppe creare uno zoccolo duro, un gruppo-base che lavorava tanto. Grazie all'intervento aggiuntivo di Guidolin su tecnica, tattica e intensità, vedemmo affinate le nostre specifiche qualità individuali. Con Ulivieri c'era più possesso della palla, con Guidolin più verticalizzazione del gioco.

Partiamo da Ulivieri: che cosa ha rappresentato per lei? Un maestro che ti spiega l'abc del calcio, essenziale perché ci plasmò a livello tecnico-tattico: ci faceva allenare e preparare tatticamente per almeno 2 ore e mezza al giorno. In quei primi anni si creò pure un'alchimia tra proprietà, squadra, allenatore e tifosi al punto che nulla ci sarebbe stato precluso: eravamo disposti a tutto.

Com'erano gli allenamenti con Guidolin?
Sedute di 55' d'alta intensità: un motore che doveva andare a 100. Non avevi tempo di parlare e per giocare dovevi rendere al massimo.

In B lei esordì a 28 anni, in A ci arrivò a 31 anni: che sensazioni provò?
Grandissime. Vincendo a Vicenza, comportandoti bene e dando tutto per la squadra, entri nella testa e nel cuore della gente: per un calciatore è il massimo. In quel periodo c'era una squadra che aveva fame di vincere, progrediva da sola grazie alle motivazioni e non aveva paura di nessuno. Anche i giocatori in scadenza di contratto si sentivano sicuri di restare; c'era vicinanza anche umana da parte della società, un vero senso di famiglia, e tutti davano il massimo di quanto potevano per meritare una conferma.

Non a caso, lei firmò in bianco pur di rimanere a Vicenza in A, vero?
Sentivo che solo con questa società, questo allenatore e questi tifosi avrei giocato nella massima serie. Giocare contro i grandi campioni sarebbe poi stata la realizzazione d'un sogno da bambino: a quel punto, la cifra riportata sul contratto, davvero, potevano deciderla Dalle Carbonare e Gasparin.

I gol più belli tra i 9 segnati?
Al Napoli in A: spaccata su cross laterale, ma soprattutto quello al Venezia da fuori area: una prodezza inusuale per me.

Con Fabio Viviani in campo formavate un bel duo: che qualità gli riconosce?
Un gran giocatore estroso, un esempio di tecnica, organizzazione ed esperienza, e poi è un grande amico.

Le partite personalmente più significative per lei?
In C quella della svolta per la promozione quando al Menti sconfiggemmo l'Empoli dando ciascuno più del 100%; in B, a Verona, quando battemmo il Chievo conquistando la A: dopo 3 giorni stavo ancora festeggiando; in A contro le grandi squadre come il Milan, che superammo anche in Coppa Italia: giocai dopo aver preso una ginocchiata che m'aveva provocato un forte ematoma; non camminai per 2 giorni e ripresi a muovermi solo dal mercoledì. Provai lo stesso a giocare e quella fu una gara che ci portò alla storia.

Della finale col Napoli cosa ricorda in particolare?
Alla vigilia rimasi sveglio fino alle 4 a parlare con Rossi, Amerini e Maini. Parlammo di tattiche che avremmo applicato. Non ci trovavamo nelle migliori condizioni: in mezzo al campo eravamo io, Gentilini e Maini, ognuno con vari problemi e cercavamo di coprirci a vicenda. Quando giochi una finale però, il dolore fisico non ti ferma.

E del doppio confronto col Chelsea?
Ricordo tutto. Iniziando dalle coreografie dei nostri splendidi tifosi che fan sempre la differenza e ti ripagano doppiamente, sono il 12° uomo in campo grazie alla spinta che danno sempre. Al Menti, le note del Carmina Burana in noi giocatori moltiplicarono le forze. Era un pubblico eccezionale, cresciuto insieme alla squadra.